domenica 20 marzo 2011

la retorica del tricolore e l'imperialismo italiano

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Una interessante analisi di Alberto Burgio (da Liberazione di oggi) su miti e menzogne dell'unità d'Italia, dopo 100 anni di nuovo in guerra contro la Libia
 
Non capita spesso che gli avvenimenti si incastrino tra loro in modo così perfetto. Non si era ancora spenta l'eco delle celebrazioni del 150° dell'unità nazionale (e delle relative polemiche) che già le agenzie battevano il testo della risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che impone il blocco aereo alle forze fedeli a Gheddafi. Eventi diversi, certo, e distanti tra loro. Ma anche legati da fili invisibili e ricchi di senso. Non diremo che i drammatici sviluppi della crisi libica, destinati a coinvolgere pesantemente il nostro Paese, contengono l'interpretazione autentica dei festeggiamenti dell'unificazione italiana. Di certo però offrono un'interessante chiave di lettura.
Cerchiamo di mettere ordine in una matassa di problemi complicati. Come vediamo la questione dell'unità nazionale? Non c'è dubbio: patria, nazione e identità sono concetti controversi, che negli ultimi centocinquant'anni hanno conosciuto declinazioni prevalentemente regressive. Da ciò discende forse che hanno ragione quanti istituiscono un'equazione immediata tra nazionalità e nazionalismo? È condivisibile la posizione di chi considera l'idea di nazione patrimonio esclusivo della destra, ritenendola estranea ai processi di autorappresentazione senza i quali difficilmente una comunità civile potrebbe costituirsi e conservarsi nel tempo? 
Non lo crediamo - e del resto non è privo di significato il fatto che simili giudizi liquidatori siano condivisi anche da una parte della destra, non la meno retriva e minacciosa. È vero, da un secolo e mezzo (a valle dell'unificazione italiana e tedesca) ha prevalso la dimensione aggressiva e guerresca del nazionalismo, che ha trionfato nelle due guerre mondiali. A ragione questo periodo storico è definito «età degli imperialismi». Gli Stati capitalistici hanno nazionalizzato le masse (spesso su base plebiscitaria e razzista) per competere tra loro nelle guerre coloniali e per contendersi materie prime e mercati. L'Italia - con buona pace di una tenace vulgata autoassolutoria - non è stata, in questa corsa alle armi, da meno delle altre nazioni occidentali. Anzi, proprio perché giunta in ritardo all'unificazione, vi ha preso parte con maggiore aggressività. Derivarono da qui il connotato marcatamente autoritario dello Stato liberale, la ricorrente propensione alle avventure coloniali e finalmente la barbarie fascista, coi corollari di un brutale colonialismo «imperiale» e del razzismo di Stato contro «negri» e «giudei». 
A questi turpi risvolti dell'unificazione nazionale nelle celebrazioni di questi giorni non si è fatto cenno, e questa è stata un grave lacuna, che toglie credibilità al rifiuto preventivo della retorica patriottarda. Si fa retorica anche attraverso le omissioni, pur se ci si astiene da formule roboanti.
Ma avanzare tale critica non deve spingerci all'eccesso opposto. Il rigetto del nazionalismo non comporta la negazione del proprio vissuto individuale e collettivo, né l'indifferenza nei suoi confronti. Crediamo possibile assumere una posizione corretta nella relazione con la vicenda storica della comunità civile di cui si è parte: una posizione di riconoscimento memore e critico, in virtù del quale il sentimento dell'appartenenza - fondamentale nella costruzione della soggettività - si definisce senza assumere toni aggressivi ed escludenti. Nulla impedisce di collocarsi in modo responsabile nella storia collettiva del proprio Paese, senza che a ciò si accompagnino presunzione di superiorità e pratiche di esclusione. C'è un esempio altissimo a questo proposito: quello dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea, che nell'estremo saluto ai propri cari si definiscono «patrioti» e che nella liberazione della «patria» dalla tirannide nazifascista pongono il fine ultimo del proprio sacrificio.
Ma proprio perché non condividiamo la sommaria liquidazione del tema nazionale non ci allineiamo al coro delle celebrazioni di questi giorni. Di riferimenti all'unità d'Italia trabocca da sempre anche la retorica fascista, quindi occorre distinguere, chiarire, scegliere. L'unità d'Italia non è stata un evento puntuale, concentrato in un anno né nel solo Risorgimento. Fu - ed è - un lungo processo. Complicato, travagliato, contraddittorio. Sul quale in questi giorni si è sorvolato, ignorando che un Savoia fu anche quel Vittorio Emanuele III che consegnò l'Italia a Mussolini e sottoscrisse le infami leggi del '38; che l'Italia è anche quel Mezzogiorno prima annesso, poi abbandonato alle mafie e sistematicamente discriminato; e che Italia sono anche le minoranze francofone, germanofone e slave, nazionalizzate con una violenza che oggi ritorna contro i migranti, nuovi italiani misconosciuti. 
Perché questo imbarazzato silenzio? Perché rifugiarsi nel mito e nell'oleografia? C'è, secondo noi, una sola possibile risposta: la persistente fragilità dell'unità italiana. La quale - si badi - non è debole soltanto perché esplicitamente avversata dai fautori della secessione e tacitamente minata dai mille egoismi e particolarismi di sempre. C'è una ragione se possibile ancora più grave e seria, che ci riporta alla Libia e ai drammatici sviluppi di queste ore. L'unità italiana è debole perché debole è il suo principale fondamento, quella Costituzione repubblicana che del Risorgimento costituisce il frutto più alto e progressivo. Fuor di retorica, per taluni la Costituzione è un simulacro, per altri soltanto un ingombro. Pensiamo allo scempio della scuola e dell'università pubblica, o al quotidiano insulto al principio di uguaglianza tra uomini e donne e nei confronti dei migranti. Pensiamo alla guerra contro i diritti del lavoro, posto a fondamento della Repubblica democratica. E pensiamo infine proprio alla guerra guerreggiata, che i Costituenti vollero bandire dalla storia italiana. L'articolo 11 è stato calpestato in questi vent'anni di guerre «democratiche» e «umanitarie», e ora la guerra sembra battere nuovamente alle porte. Per ciò quanto accade in queste ore in Africa somiglia molto a un ironico e tragico gioco del destino. Intoniamo pure l'inno di Mameli, inchiniamoci commossi dinanzi al tricolore repubblicano e raccontiamoci storie toccanti di patrioti e di eroi. Ma la realtà è dura e non accetta finzioni né menzogne.