giovedì 30 giugno 2011
mercoledì 29 giugno 2011
diari dell'orgoglio: intervento di città futura alla queer week
intervento di Alberto Rotondo a "Diari dell'orgoglio"
28 giugno, Queer Week, Catania
Come sapete, quest’anno la settimana dell’orgoglio a Catania presenta delle caratteristiche peculiari: per la prima volta da molti anni non avremo il corteo per la via Etnea.
Non è mia intenzione polemizzare su questo punto: mi limito a registrare come, in un momento storico in cui vi è una ripresa forte dell’iniziativa del movimento e in cui in generale la società è attraversata da forti fermenti partecipativi, la città di Catania non vedrà le proprie strade invase dal popolo gioiosamente orgoglioso del Pride.
Come ho già avuto occasione di precisare in un precedente intervento, non si tratta di puntare l’indice accusatorio contro nessuno, occorre piuttosto un’assunzione di responsabilità collettiva.
Come afferma il documento politico, è il momento di decostruire, di interrogarci in profondità sul senso della nostra iniziativa politica, condizione imprescindibile per riannodare le fila di relazioni logorate da incomprensioni personali e ideologiche, e per avviare una nuova stagione di partecipazione e di lotta.
E’ mia profonda convinzione che vi sia un impedimento che vizia le nostre pratiche politiche fino a renderle inefficaci : mi riferisco agli ideologismi e agli intellettualismi che, lungi dall’elaborare una visione critica della società, finiscono per paralizzare le energie migliori di cui disponiamo e di minarne le loro potenzialità di trasformazione sociale.
Credo che viviamo dentro una grande contraddizione: da una parte ampi settori dell’opinione pubblica lgbtq hanno raggiunto un livello di maturazione tale da non potersi accontentare di una pura logica rivendicativa dei diritti che vergognosamente ci vengono negati, dall’altra il ritardo abnorme e razzista, con cui le istituzioni pubbliche rifiutano di confrontarsi con le nostre legittime aspettative, ci spinge ad agire iniziative che in altri Paesi apparirebbero anacronistiche.
Non ci basta scendere in piazza per chiedere l’approvazione di una legge contro l’omo-transfobia o per il riconoscimento delle unioni civili e della possibilità di accedere all’istituto del matrimonio , ma allo stesso tempo la presenza di una destra retriva e arcaicamente ancorata a concezioni della vita pre-moderne ci costringe a farlo.
La mia personale opinione è che a Catania il movimento lgbtq stia attraversando una crisi che si colloca dentro questa contraddizione : chi conosce la realtà catanese sa benissimo come in questi anni la città abbia accolto migliaia di donne e di uomini gay , lesbiche e trans che, grazie alla presenza di una comunità fortemente radicata nel territorio, sono rinati a nuova vita.
Esiste un tempo della mia vita a cui associo un colore: il verde, il mio colore preferito.
Verdi sono le foglie nella ridente primavera, alcune avranno la fortuna di conservarsi nella loro verdità anche nel triste e malinconico autunno e nel gelido inverno, altre trascoloreranno in un giallo pallido, tragico annuncio della loro caduta.
E verde mi apparve subito Catania quando vi arrivai undici anni fa.
Si trattò per me di un’epifania : non pensavo che sarei entrato in un mondo fiabesco, una città fantastica abitati da elfi -non solo bruni per citare l’amico Dario - e splendide fatine ; le uniche minacce venivano da streghe di finocchi e qualche orco cattivo venuto a perturbare il nostro sogno magico.
Credo che questa sia un’esperienza comune a tante e tanti che, a partire dalla scoperta di non essere soli, hanno sperimentato la gioia della loro personale liberazione.
Una liberazione non solo individuale o esistenziale: dalla scoperta di me stesso e dei miei desideri è scaturito un forte richiamo all’impegno politico e sociale. Gli occhi nuovi con cui guardavo al mondo mi spingevano sempre più a cercare, nell’incontro con gli altri e nell’azione collettiva , una reale possibilità di trasformare le relazioni sociali e di produrre un cambiamento nella società.
Ma vi è un’altra e più profonda contraddizione che credo debba essere illuminata. Viviamo i tempi di una profonda crisi della rappresentatività politica. Gli ultimi anni ci hanno mostrato una ripresa forte della conflittualità sociale: mentre un’intera generazione di giovani e non più giovani si vede cancellata ogni possibilità di costruzione di un futuro libero e dignitoso e sempre più ne prende coscienza nella partecipazione e nelle lotte, le istituzioni rappresentative della repubblica ci appaiono come delegittimate e lontane dai bisogni e dalle esigenze che emergono dal corpo sociale.
Milito in un partito, il partito della Rifondazione Comunista, che ha attraversato in pieno questa crisi con l’esperienza negativa del governo Prodi, che tante speranze aveva suscitato per poi naufragare nella paralisi dei veti incrociati e nell’impossibilità di produrre un cambiamento. Il risultato è che oggi il conflitto sociale non è rappresentato in Parlamento.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere. L’assenza dai luoghi istituzionali ci ha spinto a interrogarci in profondità sul senso della nostra azione politica. Politica non significa eleggere dei rappresentanti nelle istituzioni, ma produrre dei processi di trasformazione sociale attraverso l’impegno costante nella società.
Fuori dall’astrazione: politica non significa soltanto criticare il sistema capitalistico e le ingiustizie sociali che determina, ma promuovere un diverso modello di relazioni umane ed economiche. Per questo motivo abbiamo costituito un gruppo di acquisto popolare, nel tentativo di dimostrare che un’altra economia è possibile. Un’ economia attenta alla dignità delle persone, alla cura dell’ambiente e del territorio e a una diversa valorizzazione dei saperi tradizionali della nostra splendida regione.
Proprio per questo non abbiamo condiviso alcune pratiche politiche recenti e lo dico senza spirito polemico ma al fine di chiarire in maniera esplicita le nostre posizioni.
Qualche tempo fa alcune persone si sono ritrovate a manifestare davanti all’IKEA e al supermercato IPERFAMILA: mi riferisco al flash-mob di sostegno al colosso scandinavo del mobile, dopo le polemiche sul manifesto con cui ha promosso l’apertura a Catania, e a un flash-mob, tra il politically correct e il pubblicitario, organizzato da Arcigay per l’inaugurazione di un nuovo supermercato. L’impressione che se ne potrebbe trarre è che quest’anno a Catania i gay, le lesbiche e i trans hanno preferito disertare le piazze per affollare i centri commerciali.
La campagna pubblicitaria di IKEA è stata una campagna intelligente: gli esperti di marketing hanno semplicemente registrato come a Catania negli anni si sia formata una comunità lgbtq assai vasta e ben inserita nel tessuto sociale cittadino. Ma le strategie di marketing di una multinazionale (scimmiottate anche da un ipermercato locale), per cui non siamo corpi desideranti ma segmenti di consumo,sono altra cosa rispetto alle lotte di liberazione.
Ma vi è un’altra liberazione che dobbiamo ricercare: la liberazione dalla solitudine.
Viviamo tempi in cui lo straordinario sviluppo delle nuove tecnologie, utilizzate in modo sapiente dagli apprendisti stregoni del turbo capitalismo finanziario contemporaneo, hanno contribuito a creare un’illusione: molti pensano che la possibilità di connettersi, di entrare facilmente in relazione con gli altri, superando i tradizionali limiti spazio-temporali che fino a ieri l’altro situavano le nostre personali esistenze in un qui ed ora invalicabile, abbiano significato automaticamente un ampliamento delle libertà e delle possibilità dell’umano.
Ma spesso si tratta di una libertà fallace : i nostri corpi hanno bisogno, mi verrebbe da dire si nutrono, del contatto fisico. I nostri sentimenti, i nostri desideri, la nostra rabbia non si possono esprimere attraverso un semplice post nella bacheca di Facebook, ma necessitano dell’incontro reale, epidermico con l’altro.
Non siamo individui isolati, siamo una comunità: bella, plurale, differente e orgogliosa.
In conclusione, politica non significa soltanto chiedere con forza a istituzioni lontane di riconoscere i più fondamentali diritti delle persone umane, ma costruire insieme e a partire dalla nostra visibilità orgogliosa un nuovo modo di vivere e una partecipazione attiva ai processi sociali.
E allora torniamo ad incontrarci, a vivere la nostra verde Catania, ad abitare le sue strade e le sue piazze, e a condividere le nostre esistenze: solo così potremo salvarle.
E’ da qui che credo bisogna ripartire. E allora rimettiamoci orgogliosamente in marcia. Un altro futuro è possibile.
martedì 28 giugno 2011
caso facoltà di farmacia: disastro ambientale ed omicidio colposo plurimo
Laboratori di SCIENZE FARMACEUTICHE dell’Università di Catania – Procedimento penale per: DISASTRO AMBIENTALE - OMICIDIO COLPOSO PLURIMO AGGRAVATO ed altro avviato dalla PROCURA DELLA REPUBBLICA di Catania
Venerdì 1 luglio alle ore 17,30 presso la Libreria TERTULIA in Catania Via Michele Rapisardi n.1/7 si terrà una conferenza stampa sulla drammatica vicenda che coinvolge l’ex Rettore dell’Ateneo di Catania, Ferdinando LATTERI, nonché alcuni Docenti e Funzionari (Marcello BELLIA, Francesco Paolo BONINA, Antonino DOMINA, Fulvio LA PERGOLA, Lucio MANNINO, Giovanni PUGLISI, Giuseppe RONSISVALLE e Franco VITTORIO).
Come si ricorderà, il caso fu al centro dell’attenzione della Stampa nazionale ed estera dopo che la Procura di Catania si determinò (NOVEMBRE 2008) a sequestrare i laboratori del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche, ipotizzando il reato di disastro ambientale, avendo acquisito elementi specifici che dimostravano come, a causa dello scorretto versamento dei reflui degli esperimenti effettuati all’interno dei laboratori dell’Ed. 12 dell’Università di Catania, si fossero accumulate, nel tempo, nel sottosuolo sostanze nocive, per lo più cancerogene, che rendevano il sito assolutamente insicuro per la salute dei numerosi studenti e lavoratori che lo frequentavano.
I risultati dell’incidente probatorio svoltosi innanzi al GIP Dr. Fallone nell’ambito del procedimento n.1676/2008, hanno consentito all’Ufficio del P.M. presso la Procura della Repubblica di Catania, rappresentato dal solo P.M. Dr. Lucio Setola, di chiedere il rinvio a giudizio di tutti gli imputati per l’ipotesi di DISASTRO AMBIENTALE ed altro (l’udienza preliminare è fissata per il prossimo 8.7.2011 innanzi al GIP Dr. Ricciardolo), nonché di promuovere incidente probatorio nell’ambito di altro procedimento collaterale per OMICIDIO COLPOSO PLURIMO AGGRAVATO.
Sono stati, infatti, accertati numerosi (almeno una quarantina) casi di patologia neoplastica in soggetti che, a vario titolo e per periodi differenti, hanno frequentato i laboratori contaminati. Alcuni di essi sono deceduti (fra questi i giovani ricercatori Emanuele PATANE’, Agata ANNINO, Lucilla INSIRELLO), altri proseguono la terapia per scongiurare luttuose conseguenze.
Le numerose persone offese, osservano come sia grandemente scemata l’iniziale attenzione della stampa, soprattutto quella locale, rispetto ad una vicenda di inaudita gravità e nutrono il timore che silenzi o sottovalutazioni del caso potranno vanificare le azioni intraprese per l’accertamento delle gravissime responsabilità.
Saranno presenti alla conferenza stampa i genitori delle vittime, i loro difensori e consulenti tecnici.
articolo di Chiara D'Amico - Giornale di Sicilia 1 luglio pag.20 |
articolo di Chiara D'Amico - Giornale di Sicilia 3 luglio pag.22 |
lunedì 27 giugno 2011
solidarietà con il movimento NO TAV!
Alcune motivazioni del MOVIMENTO NO TAV:
1) OPERA COSTOSISSIMA : 15 miliardi di euro che presumibilmente aumenterebbero molto come succede di solito in queste occasioni. Con quei soldi si potrebbero dare 15000 euro a ciascun abitante di Torino e ne avanzerebbero ancora. Tutto questo mentre sempre più persone faticano ad arrivare alla fine del mese. Provate ad entrare in un ospedale o a fare un viaggio su un treno di pendolari, poi chiedetevi se questi soldi non si potrebbero spendere meglio.
2) OPERA INUTILE :I dati ufficiali della Sitaf spa (la società che gestisce il traforo autostradale del Frejus) mostrano una costante diminuzione del traffico pesante attraverso il traforo. Uno studio effettuato da docenti del Politecnico e dell'Università Cattolica di Milano, mostra quanto quest'opera sia inutile e come sarebbe preferibile effettuare investimenti su altre direttrici di traffico che ne avrebbero invece bisogno. Un'altro studio realizzato dalla società Polinomia srl analizza nel dettaglio i traffici merci attraverso le Alpi e giunge allo stesso risultato: l'opera è inutile. Tra l'altro, a pagina 5 di questo studio si legge che nel 2000 al valico di Tarvisio è stata completata una linea ferroviaria "rispondente a tutti i più moderni standard in tema di trasporto merci ferroviario". Nonostante ciò il traffico su ferrovia non è aumentato, mentre il traffico su strada è aumentato del 14-15% medio l'anno. La presenza di una migliore linea ferroviaria non ha attratto nuovi traffici merci che continuano a preferire la strada.
3) OPERA DANNOSA PER LA SALUTE : I mezzi di informazione insistono sul fatto che la linea ferroviaria sarebbe quasi tutta in galleria e che toglierebbe il traffico dall'autostrada riducendo l'inquinamento. Bisognerebbe proprio essere stupidi per rifiutare una simile occasione, viene da pensare. Il problema è che le gallerie non ci sono: bisogna prima costruirle. Le gallerie sono tre: una internazionale di 54 Km, una di 12Km e un'altra di 23 Km lungo la valle. Le gallerie dovrebbero attraversare rocce contenenti uranio e amianto che verrebbero dispersi nell'atmosfera in seguito ai lavori di scavo. L'amianto è presente nelle rocce che dovrebbero essere attraversate dalla galleria più orientale, sotto il monte Musiné. Sappiamo benissimo che l'amianto si può trattare in sicurezza. Il problema è che trattare in questo modo una così grande quantità di materiale produrrebbe un aumento enorme dei costi e dei tempi di lavorazione. Tutti sappiamo come spesso vengono svolti i lavori nei cantieri: diventa difficile fidarsi quando in gioco c'è la propria vita e la propria salute.
4) OPERA DEVASTANTE PER L' AMBIENTE : Le gallerie intercetterebbero le falde che alimentano le sorgenti con il rischio di farle seccare rapidamente così com'è successo con i lavori per l'alta velocità del Mugello. Gli stoccaggi dei materiali di scavo potrebbero aumentare il dissesto idrogeologico già presente nella Valle di Susa. La costruzione dovrebbe durare 15 anni, ma non è difficile aspettarsi durate reali ben superiori: una intera generazione di cittadini crescerebbe all'interno di un enorme cantiere, un'altra generazione non vedrebbe altro che cantieri per il resto della vita. L'enorme quantità di materiale estratto dalle gallerie richiederebbe un numero impressionante di viaggi di autocarri, rendendo difficilissima la circolazione e portando inquinamento ovunque. Nessuno sa cosa fare del materiale estratto, che verrebbe depositato qua e là nella valle degradando e rendendo invivibili ampie superfici. Questa non è una pianura, questa è una valle larga circa 1 chilometro: molto del poco spazio disponibile è già occupato da due strade statali, una ferrovia e un'autostrada, senza contare due elettrodotti internazionali.
La TAV è inoltre un grande affare per la mafia. Poichè le mafie investono i loro capitali illeciti (quindi riciclano i soldi ottenuti attraverso il traffico di droga, di armi, prostituzione, eccetera) nel mercato lecito. Secondo un investigatore dell'Antimafia, che opera in Piemonte, sono tantissime le indagini investigative che iniziano e che potrebbero dimostrare il collegamento tra gli affari leciti e la mafia in Piemonte, ma per mancanza di mezzi e di uomini il tutto si blocca e non si va avanti. Le imprese collegate alle cosche operano con ingenti capitali di origine illegale ma perfettamente ripuliti attraverso sofisticate triangolazioni finanziarie. Soprattutto traverso i più importanti money transfer, molti dei quali concentrati in Piemonte e principalmente a Torino.
In Altre Parole: "NO TAV = NO MAFIA"
27 giugno 1980: ustica, per non dimenticare
per non dimenticare la strage di ustica, per non dimenticare 69 adulti e 12 bambini che ancora attendono giustizia...
le scene finali del film "il muro di gomma" di marco risi e il monologo di marco paolini
le scene finali del film "il muro di gomma" di marco risi e il monologo di marco paolini
orgogliosamente queer!
domani è la giornata modiale dell'orgoglio gay, lesbico, trans... orgogliosamente "queer", per usare una parola che potrebbe contenerle tutte ma non vuole farlo. queer non trattiene né contiene, ma libera energie ed affettività, queer decostruisce per costruire a partire dalle relazioni, è differenza nelle differenze.
domani, come ogni giorno, saremo orgogliosamente queer, con la memoria di una storia di lotte e percorsi di liberazione, di quotidianità, visibilità e alterità.
da domani, 28 giugno, partecipamo alla queer week, la settimana di eventi del pride catanese, che avrà inizio con il dibattito "diari pubblici dell'orgoglio", alle 18 alla libreria feltrinelli di via etnea.
sabato 25 giugno 2011
isola ecologica a Picanello: ancora chiusa e fatiscente, dopo anni di aumenti tarsu!
Da anni il quartiere di Picanello attende l'apertura dell'isola ecologica per la raccolta differenziata, realizzata, in via Maria Gianni, con un ingente investimento pubblico e che oggi versa in uno stato di asssoluto degrado: contenitori per pile usate, vetro, carta e plastica rovinati; cavi, tubi e infissi divelti.
Mentre le tasse sui rifiuti solidi urbani imposte ai cittadini continuano ad aumentare (con l'ennesima beffa degli accertamenti catastali che ha fatto lievitare gli importi, aggiungendo i vani di servizio finora non calcolati), la politica dal Comune di Catania sui rifiuti non cambia, le isole ecologiche restano chiuse, la raccolta differenziata è quasi del tutto assente.
Il circolo città futura del PRC/FdS in questi anni si è battuto con coerenza contro gli aumenti, promuovendo i ricorsi contro la tarsu sui garage, e continua a battersi per l'immediato avvio di concrete politiche alternative sui rifiuti. Il primo passo è chiedere con forza l'apertura dell'isola ecologica di via Maria Gianni, su questo invitiamo cittadini ed associazioni a promuovere una vertenza sul territorio.
circolo città futura PRC/FdS
mercoledì 22 giugno 2011
dal 28 giugno a Catania la settimana del Pride!
Documento politico Catania GLBTQ 2011
Riconosciamo l’importanza che il processo rivendicativo dei diritti civili ha avuto nel passato prossimo del Movimento GLBTQ; non ne rinneghiamo lo spirito, la funzione, il desiderio ad esso sotteso. Tuttavia riconosciamo che oggi, nel qui ed ora di una Comunità sfaldata, una parte di Essa abbia raggiunto uno stadio di maturazione teorica ed emotiva per cui la rivendicazione dei diritti non è più sufficiente. Non perché disdegniamo poter vantare il diritto ad essere felici, ma perché riconosciamo che esistono altre pratiche differenti per costruire quegli stessi diritti che non riusciamo a conquistare.
Incominciamo, allora, a produrre i diritti di domani con le pratiche di oggi: non dobbiamo farci opprimere dalla paura quotidiana di vivere le nostre vite autentiche, dobbiamo essere felici e gioiosi di quella gioia che si ottiene quando finalmente si raggiunge la consapevolezza del proprio sé e la visibilità del proprio corpo di donna e uomo GLBTQ.
Siamo fermamente convinte e convinti dell’occasione rivoluzionaria e dirompente dell’omosessualità che non venga ridotta alla sola pratica sessuale, ma all’idea di mondo che la differenza porta con sé; ciò per mezzo di un nuovo sguardo gettato dagli occhi di chi rimette in discussione i teoremi della naturalità e della normatività legata ai generi e agli orientamenti sessuali.
Ci facciamo portatrici e portatori di una identità non identica, in un sistema di pensiero e desiderio che riconosca e valorizzi le specificità di ciascuna e ciascuno e le peculiarità di tutti e tutte.
Esaltiamo la cultura della bellezza e della gioia che proviene da una vita consapevole e non celata.
Per essere consapevoli bisogna essere liberi di essere visibili: liberi da noi stesse/i che ci imprigioniamo nei timori e nei sensi di colpa e libere/i dalle coercizioni dell’eterodeterminazione e del comune senso dell’orrore.
Autodeterminazione e visibilità: i primi passi per riprenderci il nostro posto nel mondo, non a passo di marcia, ma a passo di danza. Perché noi siamo altro! Abbiamo menti sovraccariche di brutture, bassezze, miserie. Contro l’oltraggio ai corpi felici ad opera del più ipocrita moralismo pruriginoso e bieco.
Tuttavia, riconosciamo che la Comunità di oggi non è quella gloriosa dei moti di Stonewall, perché in un frenetico movimento in avanti, il desiderio di essere avanguardia e alternativa ci ha fatto scordare il senso.
Oggi avanguardia è guardarsi indietro: QUESTO IL SENSO DELLA NOSTRA COMUNITÀ, dobbiamo recuperare quelle relazioni duali che partendo dal desiderio dei singoli facciano poi di un gay, una lesbica, un trans e una trans prima un gruppo, poi un nodo di una rete di rapporti fruttuosi e necessari per poter costruire il senso della comunità, che è il senso della condivisione e dell’affetto profondo e della congioia! Creiamo Comunità per trovare conforto, sì, alle nostre tristezze, ma soprattutto SIAMO Comunità quando ci liberiamo al senso della gioia.
Noi ci siamo e vogliamo esserci oggi e domani, perché a costruire il nostro mondo migliore non sia chi è avulso dalla realtà dei nostri corpi e dei nostri vissuti emotivi, relazionali, politici, culturali. Siamo noi stessi gli architetti e le architette delle città in cui vogliamo dimorare, uniti, disuniti, satellitari non ha importanza; l’importante è non doversi mai vergognare di sé e mai sentire il bisogno di nascondersi.
Per costruire le parole con cui ancora non sappiamo dirci !
Per produrre le paillettes concettuali con cui agghindarci !
Per continuare a essere fiere e fieri della nostra gayezza, lesbicità e transitudine!
RESET: RIAVVIARE LA RETE!
la vergognosa assenza di Università e Comune al processo per il ferimento della studentessa
Il circolo di Rifondazione Comunista “Olga Benario” considera gravissima la scelta dell’Università di Catania e dell’amministrazione comunale di non costituirsi parte civile al processo per il ferimento della studentessa davanti al complesso dei Benedettini.
Quell’episodio oltre a causare pesantissime conseguenze a una ragazza colpevole solo di trovarsi davanti alla sede della sua facoltà, in pieno giorno e in pieno centro, impressionò profondamente la città, mettendola di fronte ai nodi insoluti del degrado e della violenza.
La massima istituzione culturale, colpita direttamente, si trova però d’accordo con la massima istituzione civile nell’adottare la strategia della rimozione e del silenzio. Così Università e Comune vengono meno non solo a un elementare dovere di solidarietà nei confronti della giovane colpita e della sua famiglia ma anche ai loro doveri di rappresentanza di una comunità.
Luca Cangemi
Segretario del circolo Prc “Olga Benario”
Quell’episodio oltre a causare pesantissime conseguenze a una ragazza colpevole solo di trovarsi davanti alla sede della sua facoltà, in pieno giorno e in pieno centro, impressionò profondamente la città, mettendola di fronte ai nodi insoluti del degrado e della violenza.
La massima istituzione culturale, colpita direttamente, si trova però d’accordo con la massima istituzione civile nell’adottare la strategia della rimozione e del silenzio. Così Università e Comune vengono meno non solo a un elementare dovere di solidarietà nei confronti della giovane colpita e della sua famiglia ma anche ai loro doveri di rappresentanza di una comunità.
Luca Cangemi
Segretario del circolo Prc “Olga Benario”
martedì 21 giugno 2011
sabato 18 giugno 2011
sabato 25 giugno incontro con Tecla Faranda, avvocato dei cinque cubani detenuti negli USA
Sabato 25 giugno, alle 19,30, al Nievski, scalinata Alessi, Catania,
incontro con Tecla Faranda, del collegio internazionale di difesa dei cinque cubani detenuti per aver denunciato il terrorismo degli USA.
I cubani che scoprirono il terrorismo USA, di Gianni Minà
Alla metà degli anni ’90 le attività terroristiche dei gruppi che dalla Florida e dal New Jersey organizzavano attentati e provocazioni lungo le coste di Cuba, con la complicità della famigerata Fondazione cubano-americana di Miami, erano diventate così numerose e pericolose che il governo de l’Avana fu costretto a prendere due decisioni fondamentali.
La prima fu quella di infiltrare, nelle maglie della società nordamericana, cinque agenti dell’intelligence che, rinunciando per un lungo lasso di tempo alla loro vita personale e rompendo ufficialmente con le loro famiglie e il loro paese, cercassero di scoprire dove nasceva l’eversione per poterla neutralizzare.
La seconda decisione impegnò invece in prima persona Fidel Castro che chiese al premio Nobel della letteratura Gabriel García Márquez se poteva essere latore di un messaggio informale a Bill Clinton.
L’allora presidente degli Stati Uniti aveva, infatti, più volte dichiarato di essere un lettore fedele delle opere del grande scrittore colombiano, tanto da tenere i suoi romanzi sul comodino e di non addormentarsi senza leggerne una pagina.
A queste dichiarazioni erano seguiti diversi inviti a Márquez, che aveva trascorso perfino un week end ospite dei Clinton, con il collega messicano Carlos Fuentes, all’isola Martha’s Vineyard.
Márquez in quegli incontri aveva spiegato Cuba al Presidente e aveva espresso le aspettative che i popoli a sud del Texas nutrivano, dopo gli anni crudeli dell’Operación Cóndor, l’annientamento delle opposizioni latinoamericane benedetto da Nixon e Kissinger, e dopo la stagione del “reaganismo”.
Ma Clinton, che (come il premier spagnolo Aznar) aveva avuto un consistente contributo elettorale proprio dalla Fondazione cubana-americana, non aveva potuto mantenere le sue promesse di un cambio di rapporto con l’isola della Revolución e nemmeno di una reale apertura nelle politiche con l’America latina.
Così non per caso, quella volta, nella primavera del ‘98, il Gabo, alla fine dei suoi seminari all’Università di Princeton, non riuscì' a incontrare, come al solito, il suo amico Presidente e dovette accontentarsi di consegnare il delicato messaggio di Fidel Castro allo staff della Casa Bianca.
Nel frattempo, Gerardo Hernandez, René Gonzales, Fernando Gonzales, Antonio Guerrero e Ramon Labañino, i cinque agenti dell’intelligence cubana, avevano portato a termine la loro pericolosa missione. Le risultanze della loro ricerca erano apparse subito così delicate anche per la plateale connivenza di alcuni organi federali Usa, che il governo cubano si era visto costretto, attraverso la diplomazia sotterranea che non ha mai cessato di funzionare fra i due Paesi, a chiedere un incontro fra le parti. Una delegazione dell’Fbi volò all’Avana per ricevere una copia dei dossier raccolti. Ma dopo che questa documentazione fu esaminata, il governo di Washington, invece di catturare Luis Posada Carriles, Orlando Bosch, Santiago Alvares, Rodolfo Frometa o i Fratelli del Riscatto (Brothers to the Rescue) di José Basulto, veri Bin Laden latinoamericani, decise l’arresto dei cinque cubani che avevano individuato le centrali terroristiche attive in Florida.
La loro odissea era appena cominciata. Dovettero aspettare 33 mesi, 17 dei quali in isolamento e 4 settimane nell’hueco (il buco, una cella di 2 metri x 2 dove la luce è sempre accesa) prima di essere rinviati a giudizio per spionaggio. Il loro ritorno in una cella normale fu possibile solo grazie a una campagna internazionale alla quale parteciparono un centinaio di deputati laburisti inglesi e Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana, anch’essa Nobel per la Letteratura.
Non mosse un dito invece Freedom House, uno degli organismi sovvenzionati dal NED, l'agenzia di propaganda della Cia, che ha la presunzione, ogni anno, di dare le pagelle sulla democrazia e la libertà di informazione nei vari paesi. Tacquero anche i Reporters sans frontières, sempre latitanti nelle battaglie per le violazioni dei diritti umani commessi dagli Usa.
Il processo fu una vera farsa con esplicite minacce e aggressioni ad alcuni giurati e condanne inaudite a vari ergastoli per i Cinque.
L’avvocato Leonard Weinglass, difensore di Antonio Guerrero e vecchio combattente per i diritti civili (è stato il difensore di Mumia, di Angela Davis, dei cinque di Chicago) affermò che erano stati violati il 5° e il 6° emendamento della Costituzione del Paese.
Non era una esagerazione. Nell’agosto del 2005, infatti, tre giudici della Corte d’Appello federale di Atlanta che ha giurisdizione sulla Florida (e che potevano intervenire solo se avessero accertato, come è avvenuto, errori legali e di diritto commessi nel primo giudizio) revocarono la sentenza espressa dal Tribunale di Miami nella primavera del 2003, chiedendo un nuovo dibattimento in una città diversa e meno condizionata dall’odio. Sottolinearono, infatti, che non c’era stata diffusione di informazioni militari segrete e che non era stata messa in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti.
I cinque cubani, in attesa di un nuovo giudizio, non furono però liberati. Un anno dopo, ancora la Corte d’Appello di Atlanta, allargata a nove membri per le pressioni del ministro della Giustizia Alberto Gonzales, grande propugnatore del “diritto a praticare la tortura” delle forze armate Usa, revocò a sua volta la decisione presa dai giudici Stanley Birch, Phyllis Kravitch e James Oakes che, dodici mesi prima, “nell’interesse dell’etica e della giustizia” avevano dichiarato nulla la condanna per spionaggio emessa contro i Cinque a Miami.
Di fatto, il caso fu congelato e spedito alla Corte Suprema con un’istanza per la revisione del processo accompagnata da interventi di “amici della Corte” (amicus curiae brief), firmati da dieci premi Nobel e dalla ex commissaria per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
Ma tutto questo non è servito a nulla. Il 5 giugno 2009 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha infatti annunciato, senza motivazioni, la sua decisione di non riesaminare il caso dei Cinque.
L’avvocato Weinglass ha denunciato ancora una volta la latitanza, fin dall’inizio, dei mezzi di informazione in un caso che pure toccava importanti questioni di politica estera e di terrorismo internazionale.
Non a caso, il 3 marzo 2004, il più prestigioso intellettuale degli Stati Uniti Noam Chomsky, l’ex ministro della Giustizia Ramsey Clark, il vescovo protestante di Detroit Thomas Gumbleton, il Nobel della Pace Rigoberta Menchú ed altre personalità, avevano dovuto comprare, per sessanta mila dollari, una pagina pubblicitaria del New York Times, per far conoscere finalmente questa storia nascosta fin dall'inizio all'opinione pubblica.
Nella pagina ci si chiedeva: “E’ possibile essere imprigionati negli Stati Uniti per aver lottato contro il terrorismo?”. E la risposta sotto era: “Si, se combatti il terrorismo di Miami”.
Negli ultimi sei anni non è cambiato nulla. Ma Obama ha vinto in Florida, e persino a Miami, senza l’aiuto, come fu per Bush jr., della Corte Suprema e senza l’appoggio dei gruppi della destra eversiva della Florida.
Sarebbe semplice per lui dimostrare che la politica estera del suo governo non è condizionata dai terroristi legati alla Fondazione cubano–americana di Miami, autori, in questi anni, di 681 attentati , che hanno assassinato 3478 persone, e ferito altre 2000.
Per ora, Obama, ha incontrato solo i “duri” di Miami. Sarebbe utopistico sperare in un cambio di politica?
domani a catania con queer biker, per la mobilità sostenibile
Domenica 19 Giugno 2011 pedalata per il centro storico di Catania e poi tutti alla Villa Bellini per rilassarci e partecipare alla dimostrazione di massaggi shiatsu tenuta da un'esperta terapista, Daniela Di Dio.
Tutti coloro che non possono partecipare alla pedalata, possono raggiungerci alla villa per la dimostrazione di massaggi shiatsu.
Ore 17.00 partenza pedalata da P.zza Giovanni Verga lato fontana
Ore 18.30 piattaforma di legno- Villa Bellini dimostrazione massaggi shiatsu
Queer Biker ci tiene a precisare che la dimostrazione di massaggi shiatsu è totalmente gratuita. Vi consigliamo di portare con voi un materassino oppure dei teli da mare, in modo da potervi sdraiare comodamente.
Vi aspettiamo numerosi
Queer Biker
mercoledì 15 giugno 2011
vite spezzate a lampedusa
oggi pomeriggio è stata uccisa una pecora, sbarcata a Lampedusa insieme ad un gruppo di migranti.
probabilmente aveva affrontato la lunga traversata per allattare un bambino, ma evidentemente anche le pecore, come gli altri migranti, sono ritenute pericolose da un sistema intriso di un bieco razzismo.
una pecora viene abbattuta per "paura" di epidemie, tante donne e uomini sono stati lasciati morire nelle acque del mediterraneo, tanti altri vengono rispediti indietro senza pietà, come "bestie da macello", o restano rinchiusi nei CARA e nei CIE, come animali in uno zoo.
basta con la violenza ed il razzismo,
ora e sempre no alla guerra che insanguina il mediterraneo,
solidarietà con i migranti, di tutte le specie
un commento di Annamaria Rivera
C’era anche una pecora con i diciannove tunisini, dei quali sei donne e un bambino, sbarcati a Lampedusa in un’alba di pochi giorni fa. Non si sa se il mite animale fosse stato imbarcato per nutrire il piccolo durante la traversata, come dapprima si è scritto, o solo per ricordo del paese lontano, come avrebbero dichiarato i tunisini. C’è una terza ipotesi che nessuno ha avanzato: che la pecora fosse destinata ad essere immolata nella festa di Eid al-adha, la festa del sacrificio, appunto.
Qualunque sia la verità, v’è qualcosa di evangelico in quest’immagine della piccola comunità viaggiante per le acque del Mediterraneo con un bimbo e una pecora. È una parabola vivente che mette a nudo l’assurdità delle norme che pretendono di confinare gli esseri umani nei recinti nazionali. Quando sono le ragioni primarie dell’esistenza a spingere verso qualche altrove per cercare la salvezza o un destino migliore, oppure “solo” per praticare la libertà, anche di movimento, conquistata con una rivoluzione.
Una volta giunti a Lampedusa, i dodici tunisini, le sei tunisine e il bimbo sono diventati tutti nuda vita, come la pecora: esposti all’arbitrio di poteri che hanno deciso preventivamente che essi non hanno il diritto di avere dei diritti. Conosciamo la sorte dei tunisini umani: sono arrivati dopo il 5 aprile, quindi sono clandestini passibili di espulsione, preceduta da un periodo variabile di prigionia, arbitri e vessazioni. Dopo la sosta nell’isola, in quella bolgia che chiamano centro di accoglienza, saranno deportati in qualche lager difeso da grate e filo spinato in attesa del rimpatrio. Forse tenteranno la fuga, protesteranno per i maltrattamenti, assaggeranno i manganelli e i lacrimogeni delle forze dell’ordine.
La pecora extracomunitaria, invece, è stata abbattuta subito, senza alcuna esitazione: a niente sono valse le proteste degli animalisti. Le cronache riferiscono che “il protocollo prevede in questi casi l’abbattimento dell’animale dopo le analisi di rito e la disinfestazione”. Si noti il linguaggio: non è diverso da quello che si usa per gli umani, clandestini come la pecora: “Gli extracomunitari di nazionalità tunisina…in attesa delle decisioni dell’autorità…dopo le verifiche di rito…”.
Non so se avesse un nome, la nostra pecora gentile, indotta a emigrare clandestinamente. Ora che ha raggiunto quell’altra dimensione in cui nessuno più è sacrificabile, né animali né umani, diamole un nome per onorarla: chiamiamola Karima, che in arabo vuol dire “generosa”. Il nome le si addice, che abbia davvero salvato col suo latte la vita di un bimbo, che si sia prestata a farsi ricordo vivente del paese o, suo malgrado, capro espiatorio in senso proprio (così si chiama anche un personaggio del mio romanzo, Spelix. Storia di gatti, di stranieri e di un delitto, che non è una pecora, ma è ugualmente tunisina: una parrucchiera tunisina altrettanto mite e generosa).
Karima è l’emblema della gerarchia del dominio: siamo tutti sacrificabili dal momento in cui si è deciso che gli animali sono sacrificabili; siamo tutti mercificabili e riducibili a quantità irrilevante dal momento in cui si è deciso che tali sono i non umani. Nella gerarchia del dominio lei occupava l’ultimo gradino. La piccola comunità tunisina giunta dal mare, che a sua volta ha esercitato dominio sulla pecora, ora è essa stessa esposta all’arbitrio del potere.
Karima è l’emblema non solo della generosità e della mitezza, ma anche del vivente inerme e sacrificabile: che il sacrificio si compia nella forma della messa a morte o in quella dell’espulsione, cioè dell’annientamento di un progetto di riscatto. Dovremmo far qualcosa perché a quel bambino, approdato avventurosamente sulle sponde della speranza, sia concesso, insieme ai suoi, di cercare su queste sponde un futuro migliore.
probabilmente aveva affrontato la lunga traversata per allattare un bambino, ma evidentemente anche le pecore, come gli altri migranti, sono ritenute pericolose da un sistema intriso di un bieco razzismo.
una pecora viene abbattuta per "paura" di epidemie, tante donne e uomini sono stati lasciati morire nelle acque del mediterraneo, tanti altri vengono rispediti indietro senza pietà, come "bestie da macello", o restano rinchiusi nei CARA e nei CIE, come animali in uno zoo.
basta con la violenza ed il razzismo,
ora e sempre no alla guerra che insanguina il mediterraneo,
solidarietà con i migranti, di tutte le specie
un commento di Annamaria Rivera
C’era anche una pecora con i diciannove tunisini, dei quali sei donne e un bambino, sbarcati a Lampedusa in un’alba di pochi giorni fa. Non si sa se il mite animale fosse stato imbarcato per nutrire il piccolo durante la traversata, come dapprima si è scritto, o solo per ricordo del paese lontano, come avrebbero dichiarato i tunisini. C’è una terza ipotesi che nessuno ha avanzato: che la pecora fosse destinata ad essere immolata nella festa di Eid al-adha, la festa del sacrificio, appunto.
Qualunque sia la verità, v’è qualcosa di evangelico in quest’immagine della piccola comunità viaggiante per le acque del Mediterraneo con un bimbo e una pecora. È una parabola vivente che mette a nudo l’assurdità delle norme che pretendono di confinare gli esseri umani nei recinti nazionali. Quando sono le ragioni primarie dell’esistenza a spingere verso qualche altrove per cercare la salvezza o un destino migliore, oppure “solo” per praticare la libertà, anche di movimento, conquistata con una rivoluzione.
Una volta giunti a Lampedusa, i dodici tunisini, le sei tunisine e il bimbo sono diventati tutti nuda vita, come la pecora: esposti all’arbitrio di poteri che hanno deciso preventivamente che essi non hanno il diritto di avere dei diritti. Conosciamo la sorte dei tunisini umani: sono arrivati dopo il 5 aprile, quindi sono clandestini passibili di espulsione, preceduta da un periodo variabile di prigionia, arbitri e vessazioni. Dopo la sosta nell’isola, in quella bolgia che chiamano centro di accoglienza, saranno deportati in qualche lager difeso da grate e filo spinato in attesa del rimpatrio. Forse tenteranno la fuga, protesteranno per i maltrattamenti, assaggeranno i manganelli e i lacrimogeni delle forze dell’ordine.
La pecora extracomunitaria, invece, è stata abbattuta subito, senza alcuna esitazione: a niente sono valse le proteste degli animalisti. Le cronache riferiscono che “il protocollo prevede in questi casi l’abbattimento dell’animale dopo le analisi di rito e la disinfestazione”. Si noti il linguaggio: non è diverso da quello che si usa per gli umani, clandestini come la pecora: “Gli extracomunitari di nazionalità tunisina…in attesa delle decisioni dell’autorità…dopo le verifiche di rito…”.
Non so se avesse un nome, la nostra pecora gentile, indotta a emigrare clandestinamente. Ora che ha raggiunto quell’altra dimensione in cui nessuno più è sacrificabile, né animali né umani, diamole un nome per onorarla: chiamiamola Karima, che in arabo vuol dire “generosa”. Il nome le si addice, che abbia davvero salvato col suo latte la vita di un bimbo, che si sia prestata a farsi ricordo vivente del paese o, suo malgrado, capro espiatorio in senso proprio (così si chiama anche un personaggio del mio romanzo, Spelix. Storia di gatti, di stranieri e di un delitto, che non è una pecora, ma è ugualmente tunisina: una parrucchiera tunisina altrettanto mite e generosa).
Karima è l’emblema della gerarchia del dominio: siamo tutti sacrificabili dal momento in cui si è deciso che gli animali sono sacrificabili; siamo tutti mercificabili e riducibili a quantità irrilevante dal momento in cui si è deciso che tali sono i non umani. Nella gerarchia del dominio lei occupava l’ultimo gradino. La piccola comunità tunisina giunta dal mare, che a sua volta ha esercitato dominio sulla pecora, ora è essa stessa esposta all’arbitrio del potere.
Karima è l’emblema non solo della generosità e della mitezza, ma anche del vivente inerme e sacrificabile: che il sacrificio si compia nella forma della messa a morte o in quella dell’espulsione, cioè dell’annientamento di un progetto di riscatto. Dovremmo far qualcosa perché a quel bambino, approdato avventurosamente sulle sponde della speranza, sia concesso, insieme ai suoi, di cercare su queste sponde un futuro migliore.
martedì 14 giugno 2011
grazie di quorum!
foto di Alberta Dionisi |
Sì, ce l'abbiamo fatta... grazie all'impegno di tutt*, comitati referendari, circoli, associazioni, compagne e compagni che hanno ricostruito dal basso e con il lavoro sul territorio la voglia di partecipazione popolare!
Ed è solo l'inizio... continuiamo ad impegnarci e a lottare per trasformare il nostro futuro!
lunedì 13 giugno 2011
fare luce fino in fondo sullo IACP, subito!
Comincia a emergere inequivocabilmente la realtà del gravissimo modo di gestire l’istituto autonomo case popolari di Catania, ai danni delle risorse pubbliche e dei diritti dei cittadini.
E’ una realtà nota, che da molto tempo denunciamo, rilevando lo scandaloso comportamento del governo regionale che ha mantenuto al suo posto il direttore generale dell’istituto, nonostante i pesanti addebiti.
E’ oggi necessario che finalmente si vada fino in fondo nell’accertamento di tutte le responsabilità. Esse non riguardano solo vergognose pratiche di malcostume amministrativo ma attengono a un sistema di potere, che non sarebbe stato possibile edificare senza una vasta copertura di apparati burocratici e di cordate politiche.
E’ necessario liberare lo IACP, così come molti altri settori della pubblica amministrazione, da questo sistema di potere per restituirlo alla sua funzione di strumento del pubblico interesse. Tutta la città deve sentirsi offesa da questa vicenda e impegnata in un’opera di vigilanza perché su di essa non cali di nuovo il silenzio.
circolo città futura prc/fds
sabato 11 giugno 2011
siamo corpi desideranti e non segmenti di consumo!
siamo corpi desideranti e non segmenti di consumo!
alcune riflessioni, nel giorno dell'europride
di Alberto Rotondo
Oggi Roma ospiterà l’Europride: migliaia di corpi sfileranno nella splendida cornice della capitale, per condannare ancora una volta l’odiosa piaga dell’omo-transfobia, per denunciare il ritardo politico italiano, rivendicare i diritti fondamentali negati a centinaia di migliaia di lesbiche, gay e trans, e per ricordare come, ancora nel 2011, in molti Paesi del mondo sia ancora perseguitato chi non chiede altro se non di esprimere liberamente i propri desideri e la propria voglia di amare.
Milioni di lesbiche, gay e trans nel mondo conoscono drammaticamente la repressione esercitata da un potere, diffuso capillarmente in tutti gli ambiti sociali, che come un boa constrictor soffoca nelle sue spire il più autentico e non mediato desiderio umano: il desiderio di amare. Ne è "portatore sano”, perché legittimato dalla tradizione, l’intero corpo sociale. Si manifesta in molti modi e si avvale di un vasto apparato tecnologico per esercitare la sua potenza repressiva; ha a disposizione mille linguaggi e mille retoriche: parla il linguaggio brutale del boia che stringe il cappio, il linguaggio forbito di tanti teologi di istituzioni religiose, il linguaggio “scientifico” degli psichiatri e dei guaritori da strapazzo, il linguaggio ipnotico delle reclame commerciali, il linguaggio volgare delle barzellette e il linguaggio violento dei bulli.
La necessità di una liberazione da questo potere interpella fortemente ciascuno di noi, abitanti del cosiddetto mondo libero, e mai veramente liberato. Quanto è misera la nostra libertà, se si riduce alla scelta di questo o quel bene di consumo ...
I corpi si sono trasformati essi stessi in merci. Corpi in mostra nelle vetrine virtuali delle chat o nel rifugio sicuro delle discoteche e dei club privati. Corpi che devono sempre mostrare la loro vitalità, la loro bellezza e la loro giovinezza, per sollecitare l’atto di acquisto e di consumo. Corpi modellati e stravolti dall’imperativo categorico della nostra triste contemporaneità: essere sempre all’altezza, pronti, scattanti, competitivi.
Svolgo queste riflessioni con amarezza.
Quest’anno a Catania non si terrà il corteo del Pride. Per molti di noi si trattava di un appuntamento fisso: un modo per colorare la città della nostra presenza, vivace, libera provocatoria, plurale e differente. Un momento di dibattito pubblico forte e un elemento fondamentale della nostra pratica politica.
Alcune persone, invece, si sono ritrovate davanti all’IKEA e al supermercato IPERFAMILA: mi riferisco al flash-mob di sostegno al colosso scandinavo del mobile, dopo le polemiche sul manifesto con cui ha promosso l’apertura a Catania, e a un flah-mob, tra il politically correct e il pubblicitario, organizzato da Arcigay per l'inaugurazione di un nuovo supermercato. Anche gay, lesbiche e trans finiscono col disertare le piazze delle nostre belle città per affollare i centri commerciali!
La campagna pubblicitaria di IKEA è stata una campagna intelligente: gli esperti di marketing hanno semplicemente registrato come a Catania negli anni si sia formata una comunità lgbt assai vasta e ben inserita nel tessuto sociale cittadino. Catania si è trasformata negli anni in una sorta di Mecca Gay del meridione di Italia attirando centinaia di persone da tutto il mondo.
Ma le strategie di marketing di una multinazionale (scimmiotatte anche da un ipermercato locale), per cui non siamo corpi desideranti ma segmenti di consumo, sono altra cosa rispetto alle lotte di liberazione.
Ricordiamocene, con lo sguardo rivolto al futuro !
venerdì 10 giugno 2011
domani a roma l'europride
saremo in piazza perchè crediamo che i nostri corpi ribelli siano l'antidoto al razzismo, al sessimo, ad ogni pratica omofobiche lesbofobiche e transfobica.
ESPRIMI IL DESIDERIO - BE PROUD
giovedì 9 giugno 2011
martedì 7 giugno 2011
un articolo di annamaria rivera: napolitano e l'ecatombe dei rifugiati
mineo - foto alberta dionisi |
IL DITO E LA LUNA: NAPOLITANO E L'ECATOMBE DEI RIFUGIATI
Avete letto bene: secondo il Presidente della Repubblica, responsabili delle stragi di migranti e profughi nel Mediterraneo non sono le politiche proibizioniste europee , i crudeli dispositivi della guerra ai migranti, ancor meno l’ingerenza «umanitaria» in Libia, che egli ha tanto caldamente sostenuto. No, unici colpevoli sono i «criminali» che organizzano le partenze dalla Libia «di folle disperate di uomini, donne, bambini su vecchie imbarcazioni ad alto rischio di naufragio».
Volendo trarre dall’appello del Presidente la deduzione coerente, si dovrebbe concludere che gli infelici cittadini di paesi subsahariani – in primis somali ed eritrei, i nostri ex colonizzati – dovrebbero starsene serenamente dove sono a scommettere se moriranno d’inedia nei loro nascondigli, se saranno uccisi negli scontri fra i rivoltosi e l’esercito di Gheddafi oppure massacrati dai bombardamenti Nato. Agendo con calma e senso di responsabilità, essi aiuterebbero «le nazioni civili» e la «comunità europea e internazionale» a stroncare «questo traffico di esseri umani» e a «prevenire nuove, continue partenze per viaggi della morte».
Ci dispiace dirlo: la replica di Napolitano all’intervento di Claudio Magris sul Corriere della Sera manca il bersaglio. Egli, infatti, sembra ignorare che il primo dovere della comunità internazionale sarebbe stato predisporre efficaci corridoi umanitari per evacuare tutti i rifugiati, piuttosto che buttarsi a capofitto nell’ennesima avventura militare senza sbocco, punteggiata dai soliti, numerosi «danni collaterali». Non ci sembra che egli si sia prodigato fino allo spasimo perché si realizzasse l’unica missione in Libia che meriti d’essere detta umanitaria.
Inoltre, a che pensa il Capo dello Stato quando afferma che si devono «prevenire nuove, continue partenze per viaggi della morte»? Forse a nuove norme che assicurino l’effettività e l’allargamento del diritto d’asilo? Alla creazione di un’unica regione euromediterranea che garantisca la libertà di circolare e insediarsi nei paesi di entrambe le rive? Ne dubitiamo. È più probabile che abbia in mente il rafforzamento di Frontex e di altri dispositivi dissuasivi e repressivi, e la stipula di accordi bilaterali più cogenti con i governi che scaturiranno dalle insurrezioni arabe. Così da imporre loro, di nuovo, il ruolo di gendarmi feroci dell’Europa Fortezza.
Per inciso, smemorati come siamo, non ricordiamo che il Capo dello Stato sia mai intervenuto a deplorare gli inviti reiterati, espliciti o impliciti, dei leghisti, compreso il ministro dell’Interno, ad affondare i barconi dei migranti. Né rammentiamo che egli abbia reagito ai numerosi appelli della società civile affinché non firmasse le nuove leggi razziali, dissimulate sotto il nome di pacchetto-sicurezza.
Infine, per quanto a malincuore, ci spetta dire che oggi suonano vaghe e vane, sebbene dotte, anche le parole di chi mette l’accento solo sull’indifferenza collettiva che nascerebbe spontaneamente «dalla ripetizione di quei drammi e dall’inevitabile assuefazione che ne deriva» (Claudio Magris). È vero, la reiterazione di uno stesso genere di tragedia può produrre rimozione, quindi indifferenza. Ma nel caso specifico a favorire questo sentimento diffuso ha concorso la pedagogia di massa – ideologica e pratica – esercitata dai precettori politici del razzismo, insediati fin nelle massime istituzioni nazionali ed europee. A fare scuola, insomma, è stato il loro magistero, teso ad affermare il principio che «clandestini» e profughi, anche donne e bambini, semplicemente non facciano parte dell’umanità.
Sì ai referendum, per riappropriarci della politica
Votare il 12 e il 13 Giugno per bloccare l’affidamento alle imprese private degli acquedotti pubblici e per evitare che l’acqua diventi oggetto di profitto, così come per impedire la costruzione di centrali nucleari sul territorio italiano, è un passo importante per riprendersi un “pezzetto di politica”; per immetere nei processi politici un poco di democrazia. Gli studiosi definiscono l’assenza di democrazia nelle nostre società parlando, ormai da decenni, di crisi della rappresentanza politica e di distanza tra i politici e i cittadini e tra le esigenze diffuse nella popolazione e le risposte che le istituzioni riescono a darvi. Tutto ciò è certamente vero ma è possibile esprimerlo in maniera meno generica.
In questi anni abbiamo subito un processo di redistribuzione della ricchezza collettiva di segno inverso a quello che aveva determinato, a partire dalla fine della seconda grande guerra del Novecento, società meno diseguali rispetto al passato. A partire dagli ultimi anni ’80, con un’accelerazione crescente, lo spostamento della ricchezza verso la porzione più ricca della società, così come verso le nazioni più ricche nello scacchiere mondiale (a esclusione delle “nuove” grandi potenze economiche, Cina India e Brasile), è il fattore più significativo dei processi istituzionali e politici che sono stati definiti con la parola globalizzazione e che ci hanno raccontato come ineluttabili e spontanei. Spontanea, in quanto naturale, cioè propria della natura umana, sarebbe la propensione dei meccanismi dell’economia di mercato a diffondersi allorquando non vi siano ostacoli frapposti dalle istituzioni politiche. L’affermazione della maggiore efficienza distributiva delle risorse da parte delle dinamiche mercantili in quanto, intrinsecamente, coerenti con le intime motivazioni individuali (che sarebbero improntate al naturale egoismo appropriativo) è stata l’ideologia sotto la quale si è potuta realizzare, in realtà, un’immane operazione di affidamento al capitale finanziario e speculativo di gran parte della ricchezza che aveva consentito di ridurre le disuguaglianze sociali e di instaurare assetti sociali più democratici e solidali.
Questa sconvolgente dinamica di appropriazione dei beni e delle risorse sociali si è appoggiata su una sempre più diffusa apatia della cittadinanza. Negli anni ’80 è iniziato infatti, allo stesso tempo, un processo di costante svuotamento della partecipazione civile, alimentato da una cornice culturale sempre più apologetica di stili di vita improntati all’edonismo consumistico e all’indifferenza verso la dimensione civica. La passività politica ha caratterizzato quella controrivoluzione conservatrice che abbiamo subito nella forma materiale del ridimensionamento delle conquiste egualitarie ottenute nella seconda metà dello scorso secolo. Proprio la lotta contro questa passività diffusa nelle collettività contemporanee è l’obiettivo più ambizioso e intrinseco della battaglia contro la privatizzazione dell’acqua. Una battaglia che è parte della più vasta lotta che sta attraversando il pianeta per reagire contro vent’anni di politiche neoliberiste, improntate al dogma dell’efficienza mercantile e alla necessità di ridurre la spesa pubblica, senza far distinzione tra servizi sociali e di utilità essenziale per tutti e spesa pubblica inutile o addirittura ‘criminale’; pensiamo quì alle enormi quantità di risorse monetarie destinate agli apparati militari.
Per queste ragioni, la scadenza referendaria di Giugno è una scadenza importante all’interno di un percorso che va oltre. Come ci ricorda Emilio Molinari, la vittoria dei referendum, con i quali verrà bloccata la cessione a tappe forzate del servizio idrico alle avide mani delle multinazionali del settore, sarà solo l’inizio di una battaglia tutta da costruire nei prossimi anni. Una battaglia per un nuovo “pubblico”. Per una gestione dell’acqua, come degli altri beni essenziali che chiamiamo ora “beni comuni”, che si fonda sul riconoscimento del diritto all’acqua come diritto di tutti gli esseri umani (riconoscimento finalmente dichiarato anche dall’assemblea generale dell’ONU nel Luglio del 2010) all’accesso alla quantità d’acqua necessaria per le funzioni vitali e che per ciò preveda un controllo democratico effettivo da parte delle collettività. È questa la vera ‘sostanza’ politica della battaglia contro la privatizzazione dell’acqua.
Il movimento civile che da anni contrasta la mercificazione dell’acqua e che dal 2006 si è organizzato come Forum italiano dei movimenti per l'acqua è mosso da un obiettivo ambizioso. L’obiettivo è quello di porre il tema della sovranità democratica, o per dirla secondo l’espressione più comune: della sovranità popolare. Sin dall’inizio, il movimento italiano (e mondiale) per l’acqua ha posto come discriminante della propria rivendicazione l’introduzione di strumenti di controllo e di partecipazione diretta da parte delle collettività locali rispetto alle decisioni relative al governo delle risorse idriche. Questa prospettiva si fonda sull’idea dell’acqua come bene comune e sulla convinzione che la democrazia possa essere un modello non astratto e possa non rimanere un ideale nella misura in cui le comunità possono occuparsi direttamente e con processi di partecipazione diffusa delle risorse che appartengono al proprio territorio. Da questo punto di vista, i referendum sull’acqua si intrecciano in una densissima solidarietà con il referendum per impedire la costruzione di centrali nucleari e rivendicare la scelta di una prospettiva energetica salubre e rispettosa dell’ecosistema. La ragione politica essenziale del quesito referendario sul nucleare è infatti il rifiuto dell’espropriazione della facoltà di decidere sulla propria vita, almeno per quanto attiene allo spazio circostante e alle condizioni di salubrità del territorio in cui si risiede.
Il tema che la battaglia contro il nucleare pone è quello della sovranità democratica, così come la rivendicazione dell’acqua come bene comune da governare localmente, secondo logiche comunitarie che pongono al centro il dovere individuale e collettivo verso una risorsa preziosa perché vitale. Si tratta della stessa prospettiva politica che ha espresso il concetto di “sovranità alimentare” nel rivendicare il diritto di ogni collettività a poter scegliere come utilizzare le proprie ricchezze territoriali e non vedere saccheggiate le proprie risorse primarie; rigettando modelli imposti da istituzioni sovranazionali che hanno causato quasi sempre deprivazione e sradicamento.
Il paradigma dell’acqua come bene comune intende respingere radicalmente la tesi dell’incapacità delle comunità umane di gestire le risorse esauribili secondo processi di cooperazione e responsabilità solidale; come sostiene Elinor Ostrom, quella dei beni comuni non è per nulla una storia destinata a diventare “tragedia”. È questo che afferma il popolo dell’acqua, così come rivendica il diritto a decidere sulle risorse essenziali; anche oltre i referendum.
Giovanni Messina (da rebus magazine)
domenica 5 giugno 2011
venerdì 17 giugno: arte, reading, live, video e cena sociale
venerdì 17 giugno al circolo città futura
via Gargano, 37, Catania
arte, video, reading, live, cena sociale
dalle ore 18 - ALLA RICERCA DELLE ARTISTE RITROVATE
da Christine de Pizan ad Artemisia Gentileschi,
da Susanne Valadon a Camille Claudel, da Sonia Delaunay a Frida Kahlo,
un viaggio, guidato da Anna Di Salvo, tra immagini e parole, nell'Arte delle donne.
dalle ore 20,30 CENA SOCIALE - fino a tarda sera, buona cucina e buon vino a prezzi popolari.
dalle ore 22,30 - DELLAMORE E DI ALTRI FRUTTI
reading + mini live + video
di Anna Balestrieri, Giuseppe d'Alia, Stefania Licciardello, Andrea Nucifora, Ilenia Rigliaco
collezione di testi appassionati, racconto che fa della scrittura gesto e scambio fra vite, se poi accade che entra la musica e le canti, le parole ne escono vitali, moltiplicano immagini dentro un quotidiano e l'amore e gli altri frutti è cosa che riguarda tutti e magari dopo siamo un po' meno estranei.
referedum e gestione dei servizi idrici: accade in Europa
Referedum e gestione dei servizi idrici: accade in Europa
di Caterina CartaA poco più di una settimana dei referendum, Berlusconi – offuscato dalla batosta appena presa alle elezioni amministrative, dalle sue gaffes in sede internazionale e dai suoi guai giudiziari – si sveglia dal torpore e comincia a parlare di referendum. Pur non dando indicazioni di voto, ha preso posizione sulla consultazione referendaria prevista per il 12 e 13 giugno, definendo il voto “inutile” ed i quesiti “fuorvianti”. Si è detto infine disponibile a “rispettare il volere dei cittadini”, salvo poi cominciare a lavorare clandestinamente per sabotare il ricorso alle urne.
Molti osservatori hanno attribuito la volontà di boicottare i referendum da parte del governo alla presenza di un quesito sul legittimo impedimento. A ben guardare le ragioni sono più profonde. Domenica e Lunedì 12 e 13 giugno si vota infatti per l'abrogazione di misure legislative volute da questo governo, in materia di legittimo impedimento ma anche di privatizzazione dell'acqua e di creazione di nuovi stabilimenti nucleari. Il 12 e 13 si da' la propria opinione su come gestire i beni pubblici, come immaginare la politica energetica e come declinare la parola giustizia nel nostro paese.
Considerato che molti amministratori del Popolo della Libertà (PDL) si sono ripetutamente espressi contro i disegni del premier in materia di nucleare e di privatizzazione dell'acqua, si profila una vittoria del sì da parte di coloro che andranno a votare. La strategia di Berlusconi è dunque quella di evitare che si raggiunga il quorum.
A ben guardare, l'Italia non è il solo paese in Europa ad interrogarsi su queste questioni. Quella che segue è una breve rassegna su come è stata affrontata la questione dei servizi idrici altrove in Europa. La privatizzazione non sembra essere né il metodo più efficace, né quello capace di abbattere i costi del servizio.
Un problema italiano? anche in Europa ci si interroga su come gestire i servizi pubblici locali
Negli ultimi decenni, in Europa si è assistito ad una tendenza verso la decentralizzazione dei servizi idrici, cioé la devoluzione di poteri e responsabilità di competenze di policy dal livello nazionale al livello locale. I comuni d'Europa hanno dato risposte diverse a come gestire i servizi pubblici. La domanda che ci avvicina tutti da sud a nord, da ovest ad est è: sono gli interessi generali, tradizionalmente garantiti dal pubblico debitamente conciliabili con gli interessi, particolari e di ottimizzazione del profitto dei privati?
In molti paesi europei, anche se non in tutti, i partenariati tra pubblico e privato sono stati visti come una ricetta per aumentare la competizione, abbattere i costi e migliorare la qualità del servizio. In diversi casi, il ricorso ai privati ha portato ad inefficienze e aumento dei prezzi. Come vedremo, i casi virtuosi – come quelli svedese e olandese – sono quelli in cui il regime di gestione (pubbica) dell'acqua è stato accompagnato da misure mirate ad aumentare l'“accountability” dei sistemi di gestione, cioé il dovere di rendere conto del proprio operato e di risarcire i danni provocati alla collettività in caso di cattiva gestione.
Sia nel Regno Unito che in Francia la privatizzazione non ha sortito gli effetti sperati. Nel Regno Unito, in cui si è optato per una commistione tra pubblico e privato nella gestione delle risorse idriche e degli acquedotti. La privatizzazione ha portato un aumento dei costi del servizio. Tra il 1991 e il 1992, il numero dei consumatori a cui è stato interrotto il servizio, perché incapaci di pagarlo è, conseguentemente aumentato del 200%. In Francia, la privatizzazione è stata dominata da tre grandi conglomerati privati: - Vivendi (precedentemente Générale des Eaux), Suez-Lyonnaise des Eaux e SAUR/Bouygues. Nel 1997, la Corte dei Conti francese ha prodotto un rapporto molto critico sulle modalità di gestione del servizio a causa dell'alto livello di concentrazione, la conseguente “competizione organizzata” e l'elusione delle regole della concorrenza tramite “l'uso ripetuto di procedure negoziate”.
A differenza del modello inglese e francese, nei Paesi Bassi, le compagnie del settore dell'acqua sono tutte public limited companies, i cui azionisti sono per lo più municipalità e, in alcuni casi, province. Il livello del servizio è buono, gli standard di qualità dell'acqua sono alti e garantiti ad un prezzo abbordabile, e passibile di ribasso per effetto di nuove concentrazioni. L'industria olandese dell'acqua risulta competitiva anche in relazione ad altri indicatori di performance: si è impegnata in iniziative environmentally-friendly, come il monitoraggio di sostanze nocive e la riduzione dell'inquinamento.
L'ottima prestazione delle compagnie olandesi sembra anche correlata alla struttura istituzionale che sostiene il funzionamento delle public limited companies. Per esempio, l'Amministratore Delegato di queste compagnie gode di ampie libertà, ma è responsabile delle perdite causate. L'alto livello di trasparenza e accountability nella conduzione delle operazioni è inoltre accompagnata dalla rappresentazione degli interessi dei consumatori attraverso organi eletti a livello locale. Il rispetto di costi limitati è applicato pienamente, ma molto spesso le compagnie non ricavano grandi profitti, a casua del limitato interesse degli azionisti pubblci nel massimizzare il ritorno dei propri investimenti e della pratica di restringere il pagamento dei dividendi. Questo non ha però impedito di investire in programmi di sviluppo e rinnovamento.
Anche il modello svedese è considerato un modello virtuoso. In Svezia, le infrastrutture idriche sono per la maggior parte compagnie municipali. Alcune di esse sono per statuto public limited companies, come la Stockholm Vatten AV. In generale le compagnie svedesi vantano costi operativi molto bassi e alte performance, che escludono l'accumulo di grandi profitti. Uno studio condotto nel 1995, dalla Consultancy ITT ha comparato i costi dell'acqua in città di comparabile grandezza in Svezia e nel Regno Unito, lo studio sembrava indicare che le compagnie svedesi vantassero costi molto più bassi di quelli registrati dalle controparti private britanniche. Inoltre, il recupero medio dei capitali investiti dalle compagnie svedesi era all'attivo, ma costituiva circa 1/3 degli utili registrati dalle controparti private britanniche.
Il modello municipale svedese dimostra che le forniture pubbliche di acqua sono altamente competitive dal punto di vista degli standard qualitativi e ambientali, ma anche dal punto di vista degli indicatori economici e finanziari. Nel 1995, la Stockholm Vatten ha avviato una massiccia ristrutturazione finalizzata a aumentare l'efficienza operativa e lo sviluppo sostenibile di lungo periodo. Al tal fine, si è puntato alla copertura dei costi piuttosto che all'ottimizzazione del profitto. Questo ha garantito di liberare le risorse necessarie per il miglioramento della qualità dell'erogazione dell'acqua e per i servizi di impatto ambientale. Dal 1994, i costi, risultano, in effetti, progressivamente ammortizzati.
Anche guardando ad Est, troviamo casi virtuosi, come dimostra l'esperienza di una grande città ungherese, Decebren. Dopo avere ripetutamente riggettato diversi tentativi di privatizzazione, nel 1995 le autorità locali hanno optato per l'alternativa pubblica, alla luce dei costi ridotti per le comunità locali. La performance dell'azienda della municipalità Debreceni Vizmu è riuscita pienamente ad attingere alle risorse che aveva e finanziare il programma di investimento di lungo periodo. La scelta dunque si è rilevata soddisfacente in termini di efficienza operativa e di efficacia degli obiettivi sociali programmati. Se comparato all'esempio della municipalità di Debreceni, il caso di Budapest, in cui si favorì la privatizzazione dei servizi legati all'acqua, offre interessanti spunti di riflessione. A Budapest, nel 1998, appena un anno dopo la privatizzazione, i prezzi aumentarono del 175% rispetto ai livelli del 1994.
Questa rassegna dimostra che ci sono diverse ricette per rendere efficiente la gestione delle risorse idriche, per abbattere i costi e per garantire un servizio di qualità ai cittadini. Altrove in Europa si sono interrogati a fondo sulla questione, coinvolgendo i cittadini nelle decisioni da prendere.
Il recente pronunciamento dell' Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni AGCOM) ai danni della RAI, dimostra che in Italia, in vista dei referendum, non sta accadendo nulla di simile. Il silenzio sui referendum ha impedito che i cittadini prendessero visione delle alternative possibili e si concentrassero sul vero nodo del problema: qual è il progetto dell'Italia sui servizi pubblici locali? C'è un progetto e la volontà di garantire l'abbattimento dei costi e l'erogazione di servizi di qualità?
Perché è importante andare a votare
Come abbiamo visto, diverse realtà locali in Europa hanno intrapreso una riflessione su come riformare i servizi idrici. Questo consente di garantire ai cittadini che i servizi siano efficienti, economici e di qualità. La rosa di opzioni è molto ampia e richiede un dibattito informato su cosa succede fuori dai confini nazionali. Il silenzio assordante su queste questioni, a ridosso dei referendum, non rende molto onore al nostro governo e al Presidente del Consiglio.
Il 12 e 13 giugno abbiamo l'opportunità di esprimerci sulla cosa pubblica, in materia di acqua e di nucleare. Abbiamo anche la possibilità di reclamare il nostro diritto ad avere una classe dirigente che si occupi dei problemi del paese e non dei propri guai personali.
sabato 4 giugno 2011
tremonti e la politica economica ed energetica del governo: ancora motivi per dire sì ai referendum
L’indignazione suscitata dall’approvazione del cosidetto decreto omnibus, per via degli effetti che lo stesso avrebbe potuto avere sulla prossima consultazione referendaria e in particolare sul quesito relativo al programma sulle centrali nucleari, ha in realtà oscurato la reale portata di un provvedimento che riguarda la politica industriale e fiscale del paese oltre a quella energetica.
Tra le novità introdotte con il solito e autoritario metodo della decretazione d’urgenza e con il ricorso alla fiducia, il Governo ha trovato il modo di inserire una norma che modifica profondamente lo statuto della Cassa Depositi e Prestiti, sulla quale riteniamo necessario aprire una riflessione.
La CDP è una società per azioni con il 70% del capitale sociale in mano al Tesoro e il 30% in mano a un nutrito gruppo di Fondazioni bancarie prevalentemente settentrionali. Fino ad oggi la Cassa Depositi e Prestiti si è occupata prevalentemente di finanziare gli investimenti infrastrutturali degli enti locali, utilizzando l’immensa riserva del risparmio postale e di provvedere al finanziamento di opere e impianti destinati alla fornitura di servizi pubblici attraverso l’emissione di titoli. Con le nuove norme e con la solita scusa della necessità di preservare l’italianità di settori economici ritenuti di importanza strategica per il Paese, la CDP potrà adesso intervenire nel capitale di società quotate in borsa, che corrano il rischio di essere scalate da gruppi industriali e finanziari stranieri. Benchè siano previsti dei requisiti di solidità economica, il provvedimento lascia ampi margini di discrezionalità al Tesoro che potrà intervenire, attraverso la CDP anche attingendo al risparmio postale, ovvero a un “tesoretto” di circa 350 miliardi di euro.
Benchè il provvedimento possa apparire come un passo nella direzione di un rinnovato intervento pubblico, va subito chiarito che la chiave per comprendere il senso di questa operazione stia ancora una volta nell’intreccio di interessi economici e politic iche sostiene il sistema creditizio italiano e nel rapporto privilegiato tra il ministro Tremonti e Lega. Basti ricordare che è ai Comuni e alle Province che spettano le nomine nei consigli di gestione delle grandi fondazioni bancarie. Queste ultime, insieme al ministero del Tesoro, ed attraverso la nuova CDP convertita in loro braccio armato, potranno agire in sostanziale autonomia, attingendo a quei risparmi postali che fino ad oggi sono stati adoperati per finanziare investimenti necessari per lo sviluppo del Paese. E tuttavia, l’esito delle recenti elezioni amministrative, apre la strada un potenziale cambio di rotta, che va colto anche sul piano della proposta politica.
Per fare un esempio, recentemente sono state raccolte nei territori circa 80.000 firme a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare sullo Sviluppo dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili per la salvaguardia del clima.
Il carattere innovativo della proposta consiste nell’individuare le fonti di spesa per un grande piano nazionale che, a partire dal rifiuto del nucleare, apra un’era di grandi investimenti per la riconversione delle fonti e per lo sviluppo dell’efficienza energetica. Si tratta di una questione di vitale importanza: nel momento in cui la grande crisi ha falcidiato gli investimenti privati e lo Stato si ritrova costretto, a causa dell’esplosione dell’enorme debito pubblico, a limitare fortemente gli interventi di spesa. Un ruolo fondamentale, in base a quanto previsto da questa proposta di legge, assumerebbe proprio la Cassa Depositi e Prestiti. Si prevede, infatti, la costituzione presso la CDP di un fondo di rotazione di 3 miliardi di euro per interventi di miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici pubblici (scuole, ospedali, comuni ecc.).
In linea generale, la recente campagna elettorale ha visto un po’ dovunque l’emergere di una straordinaria partecipazione popolare e di proposte politiche che hanno saputo interpretarla. Ora si tratta di mantenere gli impegni presi. È necessario aprire un grande e partecipato dibattito sul futuro economico del Paese, non omettendo proposte e ragionamenti su come utilizzare gli ingenti capitali a disposizione della CDP.
Le esperienze partecipative non vanno limitate alla definizione di pochi e irrilevanti capitoli di spesa di enti locali fortemente depauperati dai pesanti tagli governativi e non in grado di assicurare un’autentica fase di cambiamento della struttura produttiva nazionale. Si tratta, al contrario, di rovesciare completamente il paradigma su cui si è esercitata la politica economica di Tremonti. Un paradigma fortemente centralistico che, dietro una facciata fintamente attenta alle esigenze e ai bisogni dei territori, ha concentrato sul Ministero dell’Economia un potere di intervento eccezionale.
Un paradigma autoritario che, nel tentativo forse di emulare la naturale tendenza all’opacità del capitale finanziario, pone al servizio di interessi privati, non di semplice individuazione, quote rilevanti di risparmio nazionale, risparmio che potrebbe essere indirizzato verso fini di pubblica utilità.
Occorre denunciare con forza gli evidenti connotati reazionari delle politiche del ministro Tremonti che aprono una nuova stagione di intervento pubblico nell’economia, utilizzando strumenti quali il decreto che impediscono qualsiasi forma di dibattito sulla natura e le finalità di tale intervento.
Alberto Rotondo (da Rebus Magazine)
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