venerdì 22 aprile 2011

la battaglia per l'acqua bene comune


Anche in Italia siamo giunti a un punto cruciale per salvaguardare l’acqua  dai processi di appropriazione privata ed espropriazione delle risorse e affermarne la natura di bene comune, che ogni collettività deve gestire nell’interesse generale. L’acqua è un elemento essenziale per la vita e per la specie umana è necessaria non solo per sopravvivere ma anche per svolgere molte delle principali attività, da quelle igienico-sanitarie a quelle industriali e scientifiche. Per questo, essa è in realtà sempre stata oggetto di interesse e di governo da parte del potere politico così come di conflitti tra comunità o tra gruppi sociali. È facile richiamare alla mente il grande ruolo che le acque del fiume Nilo ebbero nella costruzione del grande impero egiziano, ben prima dell’ascesa di Roma, e nella ricchezza della civiltà egizia fino ad ora; così come si ricordano le grandi opere di idraulica del passato sapientemente realizzate, dagli antichi greci alle dinastie arabe e agli imperi mesopotamici.
Queste esperienze e le logiche di dominio o di semplice organizzazione sociale che esse testimoniano non sono estrinseche alla politica, che è proprio lo spazio della decisione e del controllo sulle risorse sociali. La politica è sempre stata prima di tutto geo-politica, perché l’egemonia e il controllo sociale si esercitano prevalentemente attraverso l’amministrazione della ricchezza collettiva, per cui la cosa pubblica (la res publica) è essenzialmente l’insieme delle risorse che costituiscono oggetto dell’interesse comune (interesse generale/interesse pubblico) dei cittadini di una collettività. Rispetto a questo scenario costante, è possibile individuare un processo che ha contrassegnato le decisioni pubbliche negli ultimi decenni e che ha marcato un mutamento di strategia da parte delle élite sociali dominanti. I ceti dominanti hanno cambiato visione del mondo mettendo in campo una rappresentazione della realtà di tipo individualistico e radicalmente economicistica e sulla base di questa hanno ridefinito le politiche concrete e, quindi, il rapporto tra singolo (individuo/cittadino) e Stato. Questo processo culturale, che in verità esalta l’antropologia individualistica del pensiero liberale classico su cui si è costruita l’intera esperienza della Modernità è il frutto di una vera e propria strategia di superamento degli approdi raggiunti dalle società europee e nordamericane nei cosiddetti “trent’anni gloriosi”, che hanno nell’esperienza del Welfare State il modello politico-sociale di riferimento.
Si tratta di una contromossa rispetto alla situazione che negli anni ’70 del Novecento si era determinata e in cui le masse popolari e salariate, attraverso le rappresentanze sindacali e partitiche, premevano per una ulteriore fase di redistribuzione della ricchezza e di democratizzazione delle istituzioni politiche. La contromossa, come affermano alcuni analisti, è consistita in un’offensiva prima di tutto culturale che puntava a ribaltare il senso comune secondo cui la collettività, le istituzioni pubbliche, lo Stato, avrebbero il compito di decidere delle risorse sociali per assicurare a tutti le condizioni di una vita decente. Inizia a diffondersi la dottrina (una vera e propria visione del mondo) incardinata sull’idea di bisogni individuali e sull’idea della capacità di ciascuno di procacciarsi i beni per soddisfare le proprie esigenze e/o i proprii desiderii. Questa impostazione culturale, filosofica, antropologica sta dietro l’affermazione dirompente, divenuta senso comune dei ceti dirigenti di tutto il globo, della piattaforma politica imperniata sui principi della privatizzazione, deregolamentazione, liberalizzazione e, in generale, sul principio che il modello di organizzazione della ricchezza costituito dall’economia di mercato sia il più efficace, anche per la  equa distribuzione tra i cittadini. Per tal via, i meccanismi dell’economia mercantile sono assurti a modello privilegiato dell’organizzazione sociale. Un cambiamento di paradigma che è clamorosamente visibile nella considerazione dell’acqua come bene primario.
Per la concezione tradizionale e per una visione comunitaria dello stare insieme l’acqua è sempre stato un bene naturale, parte dell’ecosistema e dono vitale, necessario per tutti i principali bisogni umani e, seppure tendenzialmente inesauribile perché parte del ciclo biologico e, perciò, elemento rinnovabile, patrimonio della collettività da preservare nell’interesse di tutti. Per la concezione mercantilistico/individualistica, che si afferma definitivamente nella prima metà degli ultimi anni ’90 come ideologia delle società uscite vincitrici dallo scontro della guerra fredda, l’acqua è una risorsa di grande valore, ovviamente, ma prima di tutto lo è perché bene scarso. Per cui, la sua essenzialità diventa valore e ne fa bene prezioso sotto il profilo della logica economica. Sulla base della esauribilità della risorsa idrica e della incertezza della sua reperibilità se ne afferma la scarsità e, quindi, la sua rilevanza economica. È questo un passaggio di grande rilevanza e lo è perché accade per l’acqua ciò che è accaduto per la totalità delle ricchezze sociali o dei beni di interesse generale che definiamo solitamente beni o servizi pubblici. La svolta culturale di cui stiamo parlando si incardina su alcune affermazioni della teoria economica dominante, capitalistica e individualistica. La prima di queste tesi è che le dinamiche dell’economia di mercato, basate primariamente sul meccanismo della domanda e dell’offerta, garantiscano la migliore allocazione delle risorse tra gli attori sociali e la migliore definizione del prezzo monetario di un determinato bene. Un bene diventa oggetto di mercato, cioè una merce, quando vi è una domanda (una richiesta, un bisogno) di esso che non può essere soddisfatta illimitatamente e senza alcuno sforzo. In tale prospettiva,  un bene è merce non se è oggetto di scambi mercantili ma se è un bene (una risorsa) scarso rispetto alla domanda di esso, in quanto tale è oggetto di dinamiche mercantili.
 L’applicazione del paradigma economico-mercantile a un bene come l’acqua realizza una vera e propria rivoluzione epistemologica, perché trasforma l’accesso di ogni singolo essere umano all’acqua nel risultato di un’operazione di acquisizione, nel mercato, della quantità che può permettersi di acquistare con i mezzi monetari di cui dispone, invece che considerare compito primario della collettività, attraverso le sue istituzioni, garantire l’accesso a ciascun singolo alla quantità d’acqua necessaria per vivere e svolgere tutte le essenziali attività igieniche. L’accesso all’acqua diventa un bisogno da soddisfare nella competizione mercantile per accaparrarsi le risorse, senza riguardo per un’equa distribuzione del bene, in considerazione della sua necessità vitale, perché ciascuno viene concepito come soggetto portatore di esigenze che può soddisfare sulla base del denaro che possiede. È rilevante notare come questa impostazione implichi una tendenziale indifferenza nei confronti delle esigenze altrui, perché ciascuno è legittimato ad appropriarsi della quantità del bene che vuole (per irrigare campi da golf, per curare il proprio prato) senza esser chiamato a tener conto di bisogni essenziali di altri; ad azionare questa logica è il criterio e presupposto della scarsità. Un concetto che in realtà presiede tutto il paradigma ‘mercatista’ che sostiene la maggiore efficacia delle imprese private e, tendenzialmente, in concorrenza nel gestire qualsiasi risorsa, anche quelle di interesse primario per le collettività.
È perché un bene è scarso, quindi conteso, che deve essere affidato alla razionalità del mercato. Questo assunto però dà per vere due implicazioni del tutto arbitrarie. Prima di tutto la stessa nozione di scarsità, che è una nozione molto sfuggente e in realtà culturalmente determinata. Nel caso dell’acqua, la scarsità di cui oggi si parla per giustificarne l’affidamento alle dinamiche imprenditoriali è strettamente legata all’accettazione dogmatica di un sistema di organizzazione sociale, quello industrialista, che è proprio dell’economia capitalistica dominante, per cui la gran parte del consumo mondiale d’acqua è oggi causata da impieghi industriali e agricoli, questi ultimi secondo un modello intensivo e commerciale che è poco rivolto al fabbisogno delle collettività e molto al commercio per il profitto, non dell’agricoltore, ma del commerciante. L’altro assunto è poi alla base della svolta culturale ed epistemologica (ma in realtà antropologica) che si è ricostruita. Si tratta dell’affermazione che gli esseri umani non siano in grado di amministrare comunemente collegialmente e nell’interesse comune le risorse essenziali alla loro esistenza, perché rispetto a esse non può non scatenarsi la razionalità egoistica e strumentale insita nella natura umana (intesa seguendo Hobbes e Locke), per cui il modo più razionale per gestire risorse come l’acqua è affidarne il governo al mercato. Questa tesi in realtà sta alla base  delle attuali analisi e proposte politiche egemoniche e ha conquistato l’intero pianeta, dopo lo sfaldamento del blocco dell’Europa comunista, soprattutto grazie alle pressioni istituzionali e alle elaborazioni politiche delle due uniche agenzie delle Nazioni Unite veramente efficaci: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, che insieme all’Organizzazione Mondiale del Commercio appaiono i veri artefici della globalizzazione.
Negli ultimi anni queste concezioni privatizzatrici e mercificanti dell’acqua hanno subito un’accelerazione anche in Italia, con l’attuale governo che ha imposto che tutti i comuni affidino entro qualche anno il servizio idrico a imprese private. Contro questo processo e contro il generale paradigma di espropriazione della vita, anche in Italia si è raggiunta una consapevolezza nuova ed è in corso una battaglia che mira a respingere la definizione della risorsa idrica come merce e fonte di profitto. Vincere i due referendum sull’acqua non avrebbe solo l’effetto di eliminare due norme centrali in questo processo di mercificazione ma potrebbe essere un passo inatteso per affermare che le collettività umane, come luogo pubblico in cui si dibatte del proprio presente e del proprio futuro, sono in grado di governare, nell’interesse comune, le risorse che sono essenziali a una vita umana decente. Perché lo spazio (che, è bene sottolinearlo, è uno spazio tutto politico) in cui si decide dell’acqua è la dimensione nella quale può determinarsi o l’appropriazione da parte di pochi del bene comune o la riaffermazione di una decisionalità collettiva e democratica e, in definitiva, della sovranità popolare.

Giovanni Messina  (da rebus magazine)