mercoledì 22 febbraio 2012

il villaggio greco e la geografia del mercato
















“…L’ Atene di Teseo era un villaggio, ed era un villaggio , sia pur diverso, l’Atene bizantina; e si suppone che continuasse ad esserlo, anche nei suoi anni migliori: non la poesia segreta e brulicante delle città d’Oriente, né l’architettura prestigiosa , tutta facciate, di una Alessandria antica o di una Roma, ma un luogo raccolto dove ciascuno era aggiornato sul prezzo delle olive e sull’ultima tragedia di Sofocle, dove la voce di Socrate si poteva udire da un estremo all’altro dell’Agorà…” (Marguerite Yourcenar, Villaggi greci)

Quando Marguerite Yourcenar scriveva i suoi appunti di viaggio, sul finire degli anni trenta del secolo scorso, l’Europa doveva ancora piombare nel buio tunnel del conflitto mondiale e sicuramente le sue considerazioni erano influenzate, da figlia della borghesia qual era, dall’educazione classica ricevuta, compiendo quel salto dalla “mitologia greca alla mitologia della Grecia”: lo straordinario prestigio dei miti che “a sicuro vantaggio dell’immaginazione dell’uomo aveva trasformato in concetti mitologici i luoghi stessi dove il mito aveva avuto origine, stabilendo così un vasto paese fittizio in parallelo a quello segnato sulle carte".
Oggi un’altra mitologia prestigiosa sta ridisegnando i confini di una geografia immaginaria, non il paese ideale cantato dai poeti e dipinto dai pittori, ma il freddo paese che esce fuori dai grafici delle quotazioni di mercato e dai modelli econometrici dei tecnocrati e dei decisori politici contemporanei.
Atene è salva. L’ Eurogruppo ha deciso di dare il via libera al piano di salvataggio da 130 miliardi di euro che ne eviterà la dichiarazione di insolvenza nel breve termine, ancora fosche restano le previsioni a medio/lungo termine e ciò spiegherebbe la maggiore prudenza manifestata dal Fondo Monetario Internazionale.
I mercati non si fidano dal quadro politico, che potrebbe cambiare radicalmente alle elezioni anticipate di aprile - se non si troverà il modo di rinviarle sine die - con le forze di sinistra, sia pure con proposte politiche non convergenti sulla questione del debito, che i sondaggi danno complessivamente oltre il 40%, e i socialisti e i conservatori alleati di governo in caduta libera.
Questo spiegherebbe la maggior cautela del FMI, altro grande “salvatore”, assieme all’UE e alla BCE, della nazione ellenica.
Il fatto è che, anche rimanendo all’interno del recinto simbolico del neoliberismo egemone, il quadro è sconfortante. La Grecia è da due anni in piena depressione economica, con una disoccupazione che si avvicina pericolosamente al 20% , una riduzione media del potere di acquisto dei salari di chi un lavoro continua ad averlo del 40%, il rapido e progressivo deterioramento della qualità dei servizi pubblici essenziali per effetto dei tagli draconiani della spesa pubblica, il sistema sanitario e scolastico vicini al collasso, l’aumento vertiginoso della povertà assoluta e relativa.
Nell’Atene del 2012 non è la voce di Socrate con il suo incessante Ti estì ad essere udita in ogni angolo della città, ma è la parola triste dei numeri del finanzcapitalismo contemporaneo ad aver distrutto l’agorà, è il fragore violento dei tumulti a sfigurarne il volto.
Da domani i commissari della Troika seguiranno da vicino il governo greco, che si trasforma sempre di più in mero esecutore dei diktat di Francoforte, mentre Monti, dopo aver concluso con insperato successo alla borsa di Milano il suo tour internazionale, che negli scorsi giorni aveva fatto tappa a Wall Street e alla City londinese, annuncia fiero che “siamo meno vicini al baratro di tre mesi fa”.
I mercati sembrano dare fiducia al commissario Monti e il famoso spread diminuisce, mentre Mario Draghi annuncia felice da Francoforte che la BCE la scorsa settimana non ha acquistato titoli del debito pubblico italiano sul mercato secondario.
Anche l’Italia è salva. La realtà purtroppo è ben diversa. Rischiamo di passare dalla dittatura dello spread alla dittatura del Pil. Uno dei dogmi delle politiche neoliberiste è che alla fase del risanamento del debito bisogna far seguire la fase della crescita del Prodotto Interno Lordo, utilizzando le leve della competitività.
E la competitività, secondo le ricette neoliberiste, si recupera soltanto in due modi: da una parte riducendo il potere di acquisto dei salari e massacrando i diritti dei lavoratori, dalla tutela del posto di lavoro all’attacco alle libertà sindacali e alla contrattazione collettiva, dall’altra smantellando quel po’ che resta dello stato sociale, svendendo e “liberalizzando”, ovvero rendendo disponibili al mercato e al profitto beni pubblici fondamentali a presidio del diritto di ognuno ad un’“esistenza libera e dignitosa”, come si esprime la nostra cara vecchia Carta Costituzionale, che rischia di cadere in desuetudine.
Qualunque sia lo scenario che si verrà a determinare, come conseguenza delle scelte del capitale finanziario globalizzato, appare sempre più evidente che gli anni che ci aspettano saranno, per noi abitanti della provincia meridionale dell’Europa prussiana, gli anni di una nuova grande depressione.
Se è giusta questa analisi, tutti coloro che credono, sperano o sognano di dare un futuro alla politica come istanza di trasformazione della società e non di mera amministrazione del presente, devono fare i conti con l’assunzione di una responsabilità storica e di lungo periodo.
In questi anni nel nostro paese vedremo probabilmente crescere la tensione; gli equilibri politico-istituzionali e sociali che hanno garantito, anche con compromessi poco nobili, la coesione sociale stanno saltando, e la sfiducia verso le grandi centrali organizzative del consenso sociale e politico è salita a livelli di guardia.
Il pericolo di una sterzata autoritaria è forte e concreto, aggravato dai tanti tribuni mediatici che cercano di avvantaggiarsi dalla crescita esponenziale del malcontento popolare.
Alla sinistra, a tutti noi, spetta un compito difficile: provare a ricostruire dalle macerie del presente un tessuto di relazioni umane autentico, dislocare i conflitti che le dinamiche predatorie del capitalismo suscitano su un terreno altro dal semplice ribellismo o dal riproporsi di inutili e dannose mitologie insurrezionali.
Provare, per riprendere la metafora iniziale, ad immaginare un’altra geografia, in cui i nostri sogni e i nostri ideali lavorano concretamente e solidalmente per la costruzione di una società più giusta.
Cominciamo a farlo a partire dalle nostre città, dai territori che abitiamo e dalla gente che incontriamo. Non sarà facile, ma non vi è altra alternativa alla barbarie.

Alberto Rotondo