mercoledì 15 maggio 2013

la violenza del sistema e la forza della differenza



































riproponiamo la recensione di Chiara Platania all'ultimo saggio di Luisa Muraro
già apparsa su DDF, discorsi donne filosofia, e sul sito della Libreria delle donne di Milano

"Dio è violent": oltre il titolo provocatorio, del resto non nuovo per Muraro, si condensa una netta denuncia della rottura del patto sociale, esemplificata dalla tragica impotenza con cui subiamo uno stato di guerra permanente, celata peraltro dietro l’ipocrisia della “guerra umanitaria”. Dieci anni fa, molte e molti tra noi animavano grandi mobilitazioni pacifiste che, contemporaneamente in tutto il mondo, tentavano di impedire l’aggressione all’Iraq; la sconfitta di quel movimento è la cifra dell’assoluta impossibilità di incidere sulle scelte politiche e di costruire processi decisionali: le decisioni sono già state prese da istituzioni globali che hanno usurpato ogni sovranità popolare. È il caso, proposto da Muraro, delle mobilitazioni contro la base Dal Molin – impossibile fermarne la costruzione, nonostante la determinazione di un’intera popolazione e di molte sue espressioni istituzionali –, così come del movimento No Muos: nonostante la revoca regionale delle autorizzazioni, il cantiere mortifero del mega radar prosegue, e sono soltanto i blocchi stradali, con le mamme di Niscemi in prima fila, a frenarlo… ma quanto tempo quelle donne e quei giovani potranno restare a presidiare il territorio?
Una situazione di tale disparità non lascia scelta, né avrebbe senso tentare di correggere un contratto sociale che non è l’unica possibilità ma la grande invenzione con cui la modernità capitalistica ha legittimato il proprio potere. Dunque non resta che “ritirare il tacito consenso all’ordine”. Queste parole mi hanno subito richiamato un romanzo di José Saramago, Saggio sulla lucidità – che fa seguito al più noto ed altrettanto dirompente Cecità – in cui improvvisamente la grandissima maggioranza degli abitanti della capitale vota scheda bianca, provocando una violenta reazione del governo, che decide di abbandonare a se stessa la città e metterla in stato d’assedio affinché precipiti nel caos. Ma, contro ogni aspettativa, ciò non accade e, in mancanza di servizio di nettezza urbana, “a mezzogiorno spaccato, da tutte le case della città uscirono le donne armate di scope, secchi e pale, e, senza una parola, cominciarono a ripulire la facciata e davanti alle case in cui vivevano, dalla porta fino al centro della strada, dove s’incontravano con altre donne che, dall’altro lato, erano scese pure con lo stesso fine e con le stesse armi”. Non cito a caso questo passaggio: Saramago continua sottolineando il valore simbolico di quella silenziosa azione collettiva delle “donne della capitale, come lo avevano fatto anche nel passato, nei paesi, le loro mamme e nonne, e quelle non lo facevano, come non lo fanno queste, per scaricarsi di una responsabilità, ma per assumerla”.
L’esperienza delle donne è certo più istruita sul nodo forza/violenza, come nota Muraro, sia in quanto interne/esterne al contratto sociale – per l’evidente fatto che esso si era inizialmente  configurato sull’esclusione femminile –, sia in quanto più vicine a dio e agli animali. Credo che dar valore al nostro essere meno “umane”, anche in senso antispecista, sia un passaggio fondamentale, che oggi può essere determinante come lo è stato “sputare” su Hegel: meno “umane”, quindi più capaci di dosare la propria forza.
Muraro ci offre, seppur condensata in poche pagine, una lucida analisi del nesso tra generi e violenza, nella storia contemporanea, a partire dalla grande guerra e dal fervore interventista fondato sulla dimostrazione della virilità, fino alle vicende di una sinistra spesso incapace di decostruire il fascino del potere. “Nell’appannarsi dell’intelligenza collettiva in questo paese, non c’entrano solo il consumismo e cose simili, ma anche la fine della sfida comunista” che con l’idea dell’assalto al cielo metteva in campo una forza “resistente” al pensiero unico; la crisi della sfida comunista lascia posto ad una resa passiva all’ordine di cose esistente come unico possibile. Del resto, non si spiegherebbe altrimenti la passività diffusa e la mancanza di una “resistenza” alla violenza del potere, come nel caso emblematico de l’Aquila e delle sette visite di Berlusconi alla città terremotata: com’è possibile, si chiede Muraro, che in nessuna di quelle occasioni la popolazione abbia aggredito o cacciato il capo di un governo che continuava a far promesse senza che nel centro storico martoriato si smuovessero transenne e macerie?
Il giorno della tragedia della scuola di Brindisi, durante un’improvvisata manifestazione a Catania, molte/i di noi hanno impedito al sindaco fascista della città di prendere la parola, contestandolo e coprendo con le nostre voci ogni suo tentativo di intervenire. Un atto di forza che è inscritto nella nostra quotidiana pratica politica di nonviolenza, come ci ha insegnato Rosa Parks che con un atto di forza nonviolento ha dato il via al movimento di liberazione afroamericano.
Sembra, però, che nel nuovo millennio ogni dichiarazione di nonviolenza si sia trasformata in una dichiarazione di rinuncia alla forza e di resa al sistema globale, rendendo inutili tante performance di piazza che sono svuotate a priori di ogni possibile conflittualità: è il caso dei pride, diventati in pochi anni eventi da cartellone culturale e patrocinio comunale, o di one billion rising, spot globale che mette tutti d’accordo a ballare come in un reality show, senza perdere tempo ad interrogarsi sulle radici profonde della violenza e del femminicidio.
Per questo, con Muraro, “a chi detiene un potere, io non mi presento dichiarando che ho rinunciato all’uso della forza”, e per capire come dosarla, non posso che ricorrere alla sapienza delle cuoche: “quanto basta”.