mercoledì 4 aprile 2012
"suicidati" dal governo neoliberista, un articolo di Annamaria Rivera
di Annamaria Rivera
Il 25 febbraio scorso un immigrato tunisino, del quale ignoriamo il nome, la biografia e la sorte, si dà fuoco a Genova, nella stazione di Brignole. Da una frase scarna che la cronaca ci restituisce possiamo immaginare che fosse rimasto senza lavoro e senza alloggio.
Il suicidio col fuoco, si sa, è un grido di protesta disperato, è una pretesa di rispetto e dignità. E’ il mezzo ultimo e plateale cui ricorrono i senza potere e senza voce, per spezzare il silenzio e attirare l’attenzione pubblica su un’ingiustizia o un’umiliazione, personale o collettiva. Dietro ogni suicidio, ancor più se col fuoco, c’è l’intento di comunicare e di mettere in discussione violentemente un ordine relazionale e/o sociale sentito e vissuto come ingiusto o annichilente, perciò insopportabile.
Per il nostro tunisino senza nome, invece, l’atto di annientarsi in pubblico nel modo più atroce possibile è stato l’ennesimo ed estremo fallimento personale. Definito sbrigativamente “clochard” o col più pudico “senza tetto”, egli non ha meritato altro che quattro righe d’agenzia. Il Secolo XIX, quotidiano genovese, ha pensato che fossero troppe, sicché ha ripreso la notizia in modo ancor più conciso, a dimostrazione non solo della noncuranza verso gli ultimi fra gli ultimi, ma anche dello scarso mestiere di certi giornalisti d’oggi.
In un altro caso, accaduto a Torino l’8 marzo 2012, la nazionalità italiana non è valsa alla vittima molto di più, se non la menzione del nome e pochi altri dettagli: Gaetano Menale, muratore di 59 anni, padre di tre figli, disperato per aver perso il lavoro, si uccide dandosi fuoco nel parco della Colletta, nel cuore della città. Qualche riga in più meriterà un giovane muratore marocchino, egli pure senza nome: privato del salario da quattro mesi, il 28 marzo scorso si fa torcia umana a Verona, davanti al Municipio. Quando a togliersi la vita per protesta e disperazione è anche qualche cittadino più rispettabile, commercianti o piccoli imprenditori, meglio se di cittadinanza italiana, strozzati dai debiti e dalla brutale avidità delle banche, allora sì che i media cominciano a prestare attenzione a questa catena tragica di suicidi.
Per meglio dire, è un’angosciosa sequela di suicidati, poiché uccisi non solo dalla crisi economica e finanziaria, ma soprattutto dai modi in cui essa è “governata” dai tecnici della recessione e della macelleria sociale: maschere impassibili e spietate, nel senso letterale del termine, cioè incapaci di pietas, prigionieri come sono del loro fortino di privilegi, ottusi come sono, poiché incapaci d’immaginare che, oltre il loro ghetto dorato, oltre i diktat dei despoti della finanza, oltre i comitati d’affari della borghesia e gli interessi dei padroni del vapore, v’è un mondo sociale fatto di persone in carne e ossa, coi loro bisogni materiali, la loro esigenza di dignità, le loro sofferenze e disperazioni.
Il “senza tetto” tunisino di Genova, il muratore torinese di nazionalità italiana, il giovane muratore marocchino non sono state le prime torce umane, né saranno le ultime, nell’Italia flagellata dalla recessione, dalla disoccupazione, da un calo vertiginoso dei salari, da un drammatico processo d’impoverimento che arriva a investire anche i ceti medi. A precederli, come spesso accade per tutti i fenomeni sociali, erano state alcune persone immigrate: a Palermo, il 10 febbraio 2011, Noureddine Adnane, venditore ambulante marocchino, si dà fuoco in piazza, per ragioni e in circostanze del tutto simili a quelle di Mohamed Bouazizi, la “scintilla” della rivoluzione tunisina; il 16 marzo 2011, a Vittoria, in provincia di Ragusa, Georg Semir, bracciante albanese, anch’egli privato del salario da molti mesi, si fa torcia umana di fronte al Teatro comunale. L’uno e l’altro moriranno dopo alcuni giorni di agonia.
Se i giornalisti, i commentatori, gli “esperti”, gli studiosi nostrani avessero vista lunga, avrebbero compreso che il fenomeno crescente delle auto-immolazioni di protesta che attraversa i paesi del Maghreb e del Mashreq è cosa che parla di noi stessi e a noi stessi. Avrebbero potuto intuire che presto sarebbe arrivato anche da noi, e non solo sotto le sembianze di qualche povero immigrato senza nome e senza importanza. E’ singolare che neppure i meno grezzi fra coloro che assai di recente hanno preso a commentare questa tragedia sociale (penso ad Adriano Sofri) l’abbiano messa in rapporto con quel che accade sull’altra sponda del Mediterraneo. Lì non è bastata una rivoluzione, quella contro il regime dittatoriale e mafioso di Ben Ali, ad aver ragione dei flagelli economici e sociali prodotti dall’ultra-liberismo e dai diktat della finanza e degli organismi internazionali al suo servizio. Ci vuole ben altro che la caduta di un dittatore per sovvertire i meccanismi neoliberisti che, insieme alle rapine perpetrate dal regime, hanno condotto alcune regioni a tassi di povertà assoluta e di disoccupazione vicini al trenta per cento.
La sequela di torce umane dell’altra sponda parla a noi stessi anche in un altro senso. Essa è, fra l’altro, un sintomo del fallimento della politica. Quando si è non solo colpiti pesantemente dalla crisi economica ma anche disprezzati dalle autorità pubbliche e ignorati dalle élite politiche, è allora che ci si sente condannati all’insignificanza sociale, quindi del proprio sé e della propria parola. L’autodistruzione è concepita allora, paradossalmente, come il solo modo per “prendere la parola” e tentare d’imporla pubblicamente. Talvolta, però, neppure il grido di una torcia umana, vox clamans in deserto, è sufficiente a richiamare l’attenzione sul baratro verso il quale ci stanno precipitando.