giovedì 7 febbraio 2013

Chokri Belaid e la rivoluzione tunisina, di Annamaria Rivera


















di Annamaria Rivera

Chokri Belaid, avvocato, era una figura carismatica dell'opposizione di sinistra. Chi scrive ha avuto l'onore di conoscerlo in occasione dell'assemblea del 24 aprile 2011, nel Palazzo dei Congressi di Tunisi, quella che sancì l'unificazione tra le due formazioni, che si definiscono marxiste-leniniste e panarabiste, nate dalle lotte degli anni '70: l'Mpd (Movimento dei patrioti democratici) e il Ptpdt (Partito del lavoro, patriottico e democratico). Belaid aveva denunciato più volte l'escalation della violenza politica, che rischia, diceva, di mettere in grave pericolo la transizione democratica. A più riprese aveva dichiarato d'essere stato minacciato di morte e quasi profeticamente aveva previsto: è giunto il tempo delle «liquidazioni» politiche.

Da politico acuto e lungimirante aveva colto bene il senso delle minacce ricevute e di altri eventi allarmanti. Per parlare solo dei giorni scorsi, in appena 48 ore c'erano stati almeno sei atti di violenza politica ad opera, si dice, delle famigerate «Leghe di protezione della rivoluzione» - milizie armate al servizio di Ennahda, il partito islamista che domina il governo di transizione- spalleggiate da gruppi di salafiti jihadisti. Il 1° e il 2 febbraio avevano attaccato giusto il congresso del Ppdu nel governatorato del Kef, fatto irruzione in un meeting del Partito repubblicano a Kairouan, sequestrato, a Gabes, Ahmed Nejib Chebbi, leader di questo stesso partito, aggredito un anziano militante democratico, cercato di assalire la sede centrale, a Tunisi, di Nidaa Tounes, il partito neo-bourguibista che è per Ennahda il concorrente elettorale più temibile, e saccheggiato la sua sede di Kebili. Quest'ultimo partito ha avuto il suo primo «martire» post-rivoluzione il 18 ottobre scorso: Lotfi Naqdh, dirigente locale di Tataouine, linciato a colpi di spranga e di martello, ancora una volta dalle milizie armate di Ennahda. A tutto ciò si aggiungono le aggressioni quasi quotidiane ai danni di giornalisti, fino alla più recente: due giorni fa Nabil Hajri, dell'emittente Zitouna Tv, è stato ferito gravemente a colpi d'arma bianca.

Secondo l'agenzia Afp, il fratello di Belaid avrebbe accusato apertamente Ennhada e in particolare il suo presidente, Rached Ghannuchi, quali mandanti dell'assassinio. In effetti il partito islamista è quanto meno uno dei responsabili morali della grave situazione di tensione e violenza politica che si è instaurata nel Paese. Dopo le prime elezioni democratiche, il 23 ottobre 2011, che hanno visto trionfare Ennahda, dopo la formazione dell'Assemblea nazionale costituente e del governo provvisorio di coalizione con i due partiti laici Ettakotol e Cpr, le cose sono andate di male in peggio.

Com'era prevedibile, una mobilitazione di massa vigorosa e diffusa è stata la risposta al brutale assassinio politico di Chokri Belaid, segretario generale del Partito dei patrioti democratici unificati, componente importante del Fronte popolare (Al Jabha Chaâbia). Dalla capitale fino alle località della Tunisia «profonda» da cui è partita la scintilla della rivoluzione, la gente è scesa in piazza furibonda immediatamente dopo la notizia. In alcuni casi, come a Sidi Bouzid e a Gafsa, ha tentato di prendere d'assalto commissariati e altre sedi istituzionali o d'incendiare i locali di Ennahda, nonostante gli appelli alla calma dello stesso Fronte.
Certo, come dimostra la stessa risposta a questo assassinio politico, c'è tuttora un versante progressivo della transizione costituito dal protagonismo di massa: la presa di parola collettiva, la vivacità e reattività della società civile, le rivendicazioni e i conflitti sociali che attraversano il paese, spesso nella forma di rivolte duramente represse dalle forze dell'ordine e nondimeno irriducibili. Ma sul versante del potere, delle istituzioni e della rappresentanza, il bilancio è assai magro se non disastroso. Non solo per la complicità o almeno l'indulgenza che una parte di Ennhada ha finora riservato a salafiti e predicatori wahabiti ingrassati a forza di petrodollari. Non solo perché i gravi problemi economici e sociali del paese - la disoccupazione galoppante, la precarietà drammatica, le profonde disparità regionali- non hanno trovato alcuna soluzione, se mai si sono inaspriti. Ma anche perché si è aperta una impasse drammatica sul piano propriamente istituzionale.

L'Assemblea nazionale costituente, che avrebbe dovuto redigere la nuova costituzione entro un anno dalle elezioni è in alto mare, lacerata da controversie sul ruolo dell'islam in rapporto allo Stato; e il governo provvisorio, a rigore già decaduto, è oggi attraversato da conflitti fra i tre partiti della coalizione. È perciò che Hamma Hammami, portavoce ufficiale del Fronte popolare, ha dichiarato che «la responsabilità di questo assassinio è anzitutto del potere: il governo, la presidenza della Repubblica, il ministero dell'Interno e l'Assemblea costituente», dei cui membri ha preteso le dimissioni. Non solo: ha anche invitato tutte le forze di opposizione a organizzare lo sciopero generale il giorno dei funerali di Belaid. Non c'è che da sperare che la risposta politica di massa a questo evento tragico segni la fine delle «liquidazioni» politiche e sventi i rischi del caos. E segni la svolta verso una fase della transizione che ravvivi le rivendicazioni e i principi della rivoluzione del 14 gennaio: giustizia sociale, uguaglianza e dignità.

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Come quasi sempre allorché si tratta di paesi a maggioranza arabofona, i media italiani si distinguono, con alcune eccezioni, per sciatteria e ignoranza. Queste li hanno contraddistinti anche in occasione dell’assassinio politico di Chokri Belaid, avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, dirigente politico senza peli sulla lingua, figura carismatica dell’opposizione tunisina di sinistra.

Grazie a una velina passata da chissà chi, il 6 febbraio, come un sol uomo, i quotidiani mainstream, dal Corriere della Sera alla Repubblica, passando per l’Huffington Post e altri, hanno descritto Belaid come esponente politico di Nida Tounes: cioè del partito neo-bourguibista fondato da Beji Caid Essebsi, tre volte ministro e poi presidente della Camera ai tempi di Bourguiba, infine capo del secondo governo transitorio post-rivoluzione. Nell’edizione online dello stesso 6 febbraio La Repubblica ha definito Belaid non solo come massimo esponente di Nida Tounes ma anche, e nel contempo, come leader di un partito inesistente, il “Partito unificato democratico nazionalista”. Ancor più sublime Il Corriere della Sera che, senza alcuna rettifica esplicita, nell’edizione del giorno dopo si limita a spostare l’etichetta “Nida Tounes” dalla vittima al suo presunto carnefice. Forse l’attribuzione di Belaid a Nida Tounes è stata dettata dal desiderio inconscio di annacquare la biografia di questo “martire”, occultare la sinistra radicale d’ispirazione marxista cui egli apparteneva, nascondere che è anche grazie a essa che oggi il pericoloso impasse istituzionale tunisino ha ricevuto una scossa e le masse popolari – insieme con “la società civile” – sono tornate a riprendersi le piazze da protagoniste. Quali siano i loro sentimenti e aspirazioni è ben mostrato da uno degli slogan gridati nel corso delle manifestazioni spontanee che hanno percorso quasi l’intero paese subito dopo la morte di Belaid: “Il popolo vuole una nuova rivoluzione”.

E’ vero: una seconda rivoluzione sarebbe necessaria. Infatti, non potrebbe essere più profonda la frattura tra il paese ufficiale e quello reale: soprattutto il paese delle masse diseredate e abbandonate al loro destino di emarginazione, disoccupazione, precarietà, povertà, assenza di protezione sociale. Su questo versante, a due anni di distanza, niente è cambiato dopo la rivoluzione del 14 gennaio. Per meglio dire, i già gravi problemi economici e sociali e le profonde disparità regionali si sono inaspriti con la fuga degli imprenditori e dei capitali esteri, il crollo del turismo, l’aumento vertiginoso della disoccupazione e del costo della vita, l’inerzia e l’insipienza dei governi provvisori, soprattutto dell’ultimo.

Anche sul piano degli apparati giudiziario e repressivo i cambiamenti sono meno che esigui. Basta considerare i numerosi processi per reati di opinione, talvolta finiti con condanne assai pesanti, nonché la violenza e l’arbitrio che guidano la repressione poliziesca delle manifestazioni e soprattutto delle rivolte spontanee: queste ultime, un dato endemico e irriducibile del panorama sociale tunisino. Usando le parole di Fausto Giudice, piccolo editore a Tunisi e attento osservatore, potremmo azzardarci a dire, in sintesi, che è ancora in piedi il vero potere, cioè “la mafia affaristico-burocratico-poliziesca” del regime benalista, “alcuni pilastri del quale si son fatti crescere la barba”. A loro volta, i “pilastri con la barba” e i loro servitori – salafiti jihadisti e predicatori wahabiti ingrassati a forza di petrodollari – hanno potuto godere finora dell’indulgenza di una parte di Ennhadha, il partito islamista “moderato” che domina la coalizione governativa attuale. Si aggiunga che i nuovi esponenti delle istituzioni non hanno la forza e la capacità di sottrarsi alle ingiunzioni dei potenti organismi internazionali che dettano le regole dell’economia neoliberista, e non solo di essa.
La vasta e possente risposta popolare all’assassinio di Belaid ha reso possibile all’opposizione di sinistra di proporre il ritiro dei propri rappresentanti dall’Assemblea costituzionale, chiedere le dimissioni del governo provvisorio guidato da Hamadi Jebali, prospettare lo sciopero generale per il giorno dei funerali della vittima illustre: appello accolto dal resto dell’opposizione e, cosa assai rilevante, dalla stessa Ugtt. Jebali ha risposto subito proponendo un governo di tecnici che guidi il periodo di transizione fino alle elezioni, ma non è affatto scontato che il suo partito lo appoggi unanimemente. Abdelhamid Jelassi, vice-presidente e portavoce di Ennahdha, ha già dichiarato che il partito disapprova. 

Dato il quadro appena tracciato, azzardata è ogni previsione, infondati sono sia l’ottimismo ingenuo di certi commentatori tunisini che gridano alla vittoria della piazza e alla svolta politica, sia il pessimismo interessato dei profeti di sventura occidentali che evocano la guerra civile. L’unica cosa certa è che le strade e le piazze tunisine continueranno a risuonare degli slogan di folle di manifestanti che chiedono pane e lavoro, libertà e giustizia sociale, uguaglianza e dignità. A farli tacere non servirà intensificare i lanci di granate asfissianti e pallettoni da caccia. 

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Domenica 10 febbraio, dalle 10 alle 14, si svolgerà a Roma un sit-in davanti all’Ambasciata tunisina (via Asmara 7), per stigmatizzare l’assassinio di Chokri Belaid e solidarizzare con i suoi familiari e compagni, e con i manifestanti tunisini.