giovedì 27 giugno 2013

comunismo e cura, pratiche d'amore



















“Quando sei nato non puoi più nasconderti”. Mi piace iniziare così, con la citazione del titolo di un celebre film di Marco Tullio Giordana, il mio report sul mio percorso di vita, politico e lavorativo. E, se come diceva Gramsci le autobiografie sono un atto d’orgoglio, con quest’incipit ho quanto meno l’impressione di agire con più umiltà, presentando come necessaria e inevitabile la mia scelta di operare nell’ambito del volontariato e di essere un’attivista comunista.
Due percorsi che non si escludono, ma si intersecano e si nutrono vicendevolmente di linfa rinnovata, sfatando le convinzioni di quanti credono ancora che la sinistra non si sposi con il messaggio cristiano. Ma quale messaggio è più dirompente, rivoluzionario, ecumenico ed innovativo se non quello di Cristo che auspicava l’aiuto reciproco, lottava contro ogni forma narcisistica di individualismo, per risvegliare la coscienza morale insita in ogni essere umano? E poco importa se sia stato Cristo o qualcun altro a predicare l’amore per il prossimo, quello che più importa è che, se davvero si è uomini e donne, dotati e dotate di raziocinio e di animus, non ci si può nascondere dietro l’indifferenza e il più comodo qualunquismo dinanzi alle difficoltà che hanno coloro che condividono con noi lo stare nel mondo.
Per dirsi cittadini/e attivi/e non basta semplicemente appartenere a una comunità, usufruire dei suoi servizi e godere a vario titolo di rapporti sociali, ma è necessario agire la cittadinanza, vale a dire partecipare attivamente, ciascuno con le sue potenzialità e nei modi più congeniali al suo essere, in modo tale che il nostro passaggio su uno dei tanti mondi possibili in cui ci è stato dato di vivere abbia un senso per noi e per gli altri. Se mi volgo indietro nel tentativo di ricostruire i quadri della memoria per rintracciare il momento in cui decisi di praticare il volontariato, mi  vengono in mente le parole del vangelo di Giovanni (20, 15-19) che rappresenta il momento in cui Cristo, dopo la resurrezione, nello spezzare il pane disse a Pietro: “In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. Chi gode di buona salute o di una giovane età, o di entrambe le cose, a volte non si rende conto di quanto sia difficile per una persona con problemi motori compiere anche il più facile dei movimenti. Ecco cosa mi ha spinto quasi venti anni  fa ad iniziare a fare volontariato con i fratelli e le sorelle in difficoltà. Ogni volta che parto per un pellegrinaggio o sono impegnata in una giornata con coloro che sono in difficoltà ritorno a casa carica di nuova energia e di nuove esperienze che mi permettono di apprezzare la vita nelle semplici cose quotidiane. Non si tratta soltanto di un tuffo nel dolore per trarre egoisticamente quello che c’è di buono, ma di un vero e continuo cambiamento e rimodellamento di prospettiva nell’approccio alla vita.
Dalle piccole cose nascono le grandi cose e dai piccoli passi nasce un grande viaggio, quello della vita, che è unica e irripetibile e a cui soltanto noi, se veramente lo vogliamo, possiamo dare una direzione di senso, ritrovando la bellezza al di là delle nostre paure, dei nostri fantasmi e del nostro presunto concetto di “normalità”. Conoscendo gli altri si conosce meglio se stessi e si entra in contatto con i recessi più intimi della nostra anima che, soli, ci consentono di vivere nella verità, quella che cerco di perseguire con ostinazione.
La pratica della cura sperimentata all’interno dell’associazione di volontariato ha influenzato successivamente le mie scelte lavorative inducendomi a completare il mio curriculum di studi con il conseguimento del titolo di specializzazione all’insegnamento per le attività di sostegno che ho impiegato per divenire docente di sostegno nelle scuole secondarie di secondo grado. Una scelta pienamente sentita e rinnovata quotidianamente sul campo attraverso il rapporto educativo-didattico che di anno in anno si instaura con i ragazzi e con le ragazze in condizione di diversabilità che mi sono stati/e assegnati/e. Si tratta di un’esperienza di insegnamento che va ben al di là dei ristretti recinti disciplinari inducendoti non soltanto a cimentarti in discipline lontane dal tuo percorso di studi, ma anche a metterti in gioco per superare giornalmente le difficoltà di contesto determinate dalla mancata, finta o debole accettazione di quanti fra colleghi e colleghe credono che il docente di sostegno sia una figura accessoria e per di più agevolata dovendo prendersi in carico un solo o al massimo due elementi. Talvolta ci si imbatte in difficoltà di contesto dovute ad una non ben radicata cultura dell’integrazione che rende miopi e poco lungimiranti sull’importanza che riveste l’inserimento delle persone diversabili nel contesto scolastico, che per eccellenza dovrebbe essere il nucleo preparatorio della società.
Dall’inizio della mia carriera d’insegnante di sostegno ad oggi mi è capitato più volte di sentire pareri discordanti sull’inserimento degli/delle alunni/e diversamente abili con  riferimenti nostalgici alle scuole differenziali di un tempo. L’integrazione può e deve avvenire attraverso il coinvolgimento scolastico e non attraverso le scuole speciali, ciò che deve migliorare, semmai, è il modo in cui si opera. L’aumento delle ore di sostegno, del personale igienico sanitario, l’efficienza delle strutture e dei luoghi scolastici sono le condizioni necessarie perché si operi in vista di un’effettiva integrazione. Quello che dovremmo sforzarci di comprendere è che è proprio la differenza a costituire una ricchezza e che dovremmo utilizzarla come risorsa per la società intera. Non è raro accorgersi del fatto che in alcuni casi a scuola si  ripetano le stesse dinamiche della società, dinamiche volte a massificare l’opinione e a spegnere la specificità delle singole individualità.
E del resto la lotta per il mantenimento della specificità individuale nel rispetto del bene collettivo non è che uno dei tanti fronti in cui si dispiega l’attivismo comunista, che ho intrapreso da qualche anno e respirato da quand’ero bambina. Il ritorno a Catania, mio luogo di nascita, è stato un vero e proprio ritorno alle radici, intese come basi essenziali per il dispiegarsi della mia personalità. L’incontro con i compagni e le compagne è stato vitale e salvifico nel momento in cui ha dato ulteriore conferma ai miei convincimenti. Soltanto impegnandosi concretamente in modo tale che tutti possano usufruire delle stesse opportunità, senza che si ripetano cristallizzate disuguaglianze, si può avere la sensazione di esercitare al meglio la cittadinanza. Condividendo desideri, lotte e modi di essere, essendo semplicemente se stessi, come accade nel circolo Città Futura di Catania, puoi avere anche un’altra opportunità non indifferente, quella di ascoltare, di essere ascoltato e di ascoltarti, evitando il rischio di essere profeta/essa o schiavo/a di una verità assoluta.

Marinù Biscuso