martedì 7 giugno 2011

Sì ai referendum, per riappropriarci della politica



Votare il 12 e il 13 Giugno per bloccare l’affidamento alle imprese private degli acquedotti pubblici e per evitare che l’acqua diventi oggetto di profitto, così come per impedire la costruzione di centrali nucleari sul territorio italiano, è un passo importante per riprendersi un “pezzetto di politica”; per immetere nei processi politici un poco di democrazia. Gli studiosi definiscono l’assenza di democrazia nelle nostre società parlando, ormai da decenni, di crisi della rappresentanza politica e di distanza tra i politici e i cittadini e tra le esigenze diffuse nella popolazione e le risposte che le istituzioni riescono a darvi. Tutto ciò è certamente vero ma è possibile esprimerlo in maniera meno generica.
In questi anni abbiamo subito  un processo di redistribuzione della ricchezza collettiva di segno inverso a quello che aveva determinato, a partire dalla fine della seconda grande guerra del Novecento, società meno diseguali rispetto al passato. A partire dagli ultimi anni ’80, con un’accelerazione crescente, lo spostamento della ricchezza verso la porzione più ricca della società, così come verso le nazioni più ricche nello scacchiere mondiale (a esclusione delle “nuove” grandi potenze economiche, Cina India e Brasile), è il fattore più significativo dei processi istituzionali e politici che sono stati definiti con la parola globalizzazione e che ci hanno raccontato come ineluttabili e spontanei. Spontanea, in quanto naturale, cioè propria della natura umana, sarebbe la propensione dei meccanismi dell’economia di mercato a diffondersi allorquando non vi siano ostacoli frapposti dalle istituzioni politiche. L’affermazione della maggiore efficienza distributiva delle risorse da parte delle dinamiche mercantili in quanto, intrinsecamente, coerenti  con le intime motivazioni individuali (che sarebbero improntate al naturale egoismo appropriativo)  è stata l’ideologia sotto la quale si è potuta realizzare, in realtà, un’immane operazione di affidamento al capitale finanziario e speculativo di gran parte della ricchezza che aveva consentito di ridurre le disuguaglianze sociali e di instaurare assetti sociali più democratici e solidali.
Questa sconvolgente dinamica di appropriazione dei beni e delle risorse sociali si è appoggiata  su una sempre più diffusa apatia della cittadinanza. Negli anni ’80 è iniziato infatti, allo stesso tempo, un processo di costante svuotamento della partecipazione civile, alimentato da una cornice culturale sempre più apologetica di stili di vita improntati all’edonismo consumistico e all’indifferenza verso la dimensione civica. La passività politica ha caratterizzato quella controrivoluzione conservatrice che abbiamo subito nella forma materiale del ridimensionamento delle conquiste egualitarie ottenute nella seconda metà dello scorso secolo. Proprio la lotta contro questa passività diffusa nelle collettività contemporanee è l’obiettivo più ambizioso e intrinseco della battaglia contro la privatizzazione dell’acqua. Una battaglia che è parte della più vasta lotta che sta attraversando il pianeta per reagire contro vent’anni di politiche neoliberiste, improntate al dogma dell’efficienza mercantile e alla necessità di ridurre la spesa pubblica, senza far distinzione tra servizi sociali e di utilità essenziale per tutti e spesa pubblica inutile o addirittura ‘criminale’; pensiamo quì alle enormi quantità di risorse monetarie destinate agli apparati militari.
Per queste ragioni, la scadenza referendaria di Giugno è una scadenza importante all’interno di un percorso che va oltre. Come ci ricorda Emilio Molinari, la vittoria dei referendum, con i quali verrà bloccata la cessione a tappe forzate del servizio idrico alle avide mani delle multinazionali del settore, sarà solo l’inizio di una battaglia tutta da costruire nei prossimi anni. Una battaglia per un nuovo “pubblico”. Per una gestione dell’acqua, come degli altri beni essenziali che chiamiamo ora “beni comuni”, che  si fonda sul riconoscimento del diritto all’acqua come diritto di tutti gli esseri umani (riconoscimento finalmente dichiarato anche dall’assemblea generale dell’ONU nel Luglio del 2010) all’accesso alla quantità d’acqua necessaria per le funzioni vitali e che per ciò preveda un controllo democratico effettivo da parte delle collettività. È questa la vera ‘sostanza’ politica della battaglia contro la privatizzazione dell’acqua.
Il movimento civile che da anni contrasta la mercificazione dell’acqua e che dal 2006 si è organizzato come Forum italiano dei movimenti per l'acqua è mosso da un obiettivo ambizioso. L’obiettivo è quello di porre il tema della sovranità democratica, o per dirla secondo l’espressione più comune: della sovranità popolare. Sin dall’inizio, il movimento italiano (e mondiale) per l’acqua ha posto come discriminante della propria rivendicazione l’introduzione di strumenti di controllo e di partecipazione diretta da parte delle collettività locali rispetto alle decisioni relative al governo delle risorse idriche. Questa prospettiva si fonda sull’idea dell’acqua come bene comune e sulla convinzione che la democrazia possa essere un modello non astratto e possa non rimanere un ideale nella misura in cui le comunità possono  occuparsi  direttamente e con processi di partecipazione diffusa delle risorse che appartengono al proprio territorio. Da questo punto di vista, i referendum sull’acqua si intrecciano in una densissima solidarietà con il referendum per impedire la costruzione di centrali nucleari e rivendicare la scelta di una prospettiva energetica salubre e rispettosa dell’ecosistema. La ragione politica essenziale del quesito referendario sul nucleare è infatti il rifiuto dell’espropriazione della facoltà di decidere sulla propria vita, almeno per quanto attiene allo spazio circostante e alle condizioni di salubrità del territorio in cui si risiede.
Il tema che la battaglia contro il nucleare pone è quello della sovranità democratica, così come la rivendicazione dell’acqua come bene comune da governare localmente, secondo logiche comunitarie che pongono al centro il dovere individuale e collettivo verso una risorsa preziosa perché vitale. Si tratta della stessa prospettiva politica che ha espresso il concetto di “sovranità alimentare” nel rivendicare il diritto di ogni collettività a poter scegliere come utilizzare le proprie ricchezze territoriali e non vedere saccheggiate  le proprie risorse primarie; rigettando modelli imposti da istituzioni sovranazionali che hanno causato quasi sempre deprivazione e sradicamento.
Il paradigma dell’acqua come bene comune intende respingere radicalmente la tesi dell’incapacità delle comunità umane di gestire le risorse esauribili secondo processi di cooperazione e responsabilità solidale; come sostiene Elinor Ostrom, quella dei beni comuni non è per nulla una storia destinata a diventare “tragedia”. È questo che afferma il popolo dell’acqua, così come rivendica il diritto a decidere sulle risorse essenziali; anche oltre i referendum.

Giovanni Messina (da rebus magazine)