giovedì 14 giugno 2012

l'elefante e la metropoli, giovedì 21 presentazione a Catania: recensione di Pina la Villa

“L’elefante nero di pietra vulcanica che, dal centro della città, osserva, immobile, ogni movimento, incontra lo sguardo di un volto d’elefante, adornato di fiori, dolcemente cullato su una portantina da una comunità di fedeli che lo accompagna cantando fino alla riva sabbiosa del mare. [... ]Per tre giorni, una grande sala del sindacato dei lavoratori si è trasformata in tempio: sotto una colorata immagine di Ganesha, appesa alla parete, appare per metà, da una vecchia grande foto, il volto di Antonio Gramsci [...] Nello stesso spazio «politico» si intrecciano culture «resistenti», che non si lasciano egemonizzare dal dominio di una modernità colonizzatrice e capitalista.”
Inizia con questa suggestiva immagine il saggio di Luca Cangemi L’elefante e la metropoli. L’India tra storia e globalizzazione, appena pubblicato dalla casa editrice Dedalo.
L’elefante nero di pietra vulcanica è quello che sta al centro di Piazza Duomo, a Catania; l’altro è il volto di Ganesha, il dio dalla testa d’elefante, protagonista di uno dei miti raccontati nel libro e attinti dalle profondità della cultura vedica raccolta nelle Upanisad.
“Un giorno, Parvati voleva fare il bagno e creò, dalla farina di grano con cui si cospargeva il corpo, il giovane Ganesha; poi lo pose di guardia all’entrata del bagno, chiedendogli di non far avvicinare nessuno. Quando si avvicinò uno sconosciuto, il giovane lo respinse, ma a voler entrare era Shiva, compagno di Parvati, che non sapeva della nascita del ragazzo e che, infuriato, lottò con lui fino a tagliargli la testa con il tridente. La madre era addolorata e Shiva, disperato per aver ucciso il figlio, vagava in cerca di una soluzione, quando vide un’altra madre addolorata che piangeva il proprio figlio: erano elefanti. Dalla testa dell’elefantino e dal corpo del giovane morto, rinasce Ganesha”.
Cosa lega la piazza e l’elefante simbolo di Catania al mito di Ganesha?
Li lega il nome, evocato dalla “vecchia grande foto”, di Antonio Gramsci, che ha un posto centrale nella formazione dell’autore del saggio, ma anche, come vedremo, nella recente storia della cultura indiana.
La ricerca che questo libro propone ha per oggetto l’India, un mondo, una cultura e una storia diversi, altri rispetto al mondo, alla cultura e alla storia in cui noi siamo immersi.
E’ una prospettiva che nel libro non viene mai dimenticata, è la prospettiva di chi è consapevole della distanza e della ricchezza che questa distanza rappresenta nel confronto con l’altro da noi.
L’alterità è la condizione per conoscere. Perché è dalla curiosità, dalla passione per le vicende degli uomini che nasce la voglia di viaggiare nello spazio e nel tempo, di raccogliere e raccontare storie (Ganesha è una “straordinaria rappresentazione dell’ibridità e dell’alterità”).
E’ l’India di oggi, l’India dei call center e di Bollywood, ma anche quella di Vandana Shiva, un mondo lontano, certo, ma sempre più implicato con la storia che stiamo vivendo.
Parlare dell’India fra storia e globalizzazione in Italia e in questo momento significa cercare di mettere a punto gli strumenti teorici e pratici per individuare oggi, nel cuore della contemporaneità, “resistenze e alternative” al pensiero omologante del capitalismo nella sua versione globalizzata.
Il nome di Antonio Gramsci mette insieme la passione politica del cambiamento e la ricerca degli strumenti teorici più efficaci per attuarlo.
Si tratta infatti di un Gramsci passato attraverso lo strutturalismo, il post-strutturalismo e il decostruzionismo di Roland Barthes, Michel Foucault e Jacques Derrida, ma anche attraverso il femminismo e gli studi di genere, per approdare ai Subaltern studies, un progetto storiografico, intrinsecamente politico, nato in India alla fine degli anni settanta, da un gruppo di storici riuniti nel collettivo di Delhi (Ranajit Guha, Partha Chatterjee, Dipesh Chakrabarty, Guyatri C. Spivak), che trovano appunto in Gramsci e negli studi sull’orientalismo di Edward Said i loro punti di riferimento principali.
Al centro di questi studi è il concetto di “subalterno”, che comprende, quali soggetti della trasformazione, tutti coloro che vivono ai “margini” della storia.
Gli studi della subalternità sono diventati in questi anni anche in Italia un progetto interdisciplinare e interculturale (che comprende altre discipline come il post-colonialismo, i cultural studies, la critica all’orientalismo, gli studi sulle evoluzioni del marxismo nell’ultimo trentennio, la critica politica all’elitismo e la sociologia della rappresentazione) di cui “L’elefante e la metropoli” costituisce una testimonianza e sarà sicuramente un passaggio obbligato.
La sfida del libro di Luca Cangemi è infatti quella di dar conto di una realtà complessa come quella dell’India, sperimentando nel frattempo sul campo gli strumenti messi a punto in questi settori.
Il risultato è un affresco particolarmente vivace di una società ricca di storia e in piena trasformazione, in cui passato e presente non smettono di dialogare (come dimostra la documentata analisi dei film prodotti in India). E in questo dialogo sta la speranza di trovare strade diverse da quelle segnate dalle attuali forme della globalizzazione.
Un risultato reso possibile da una ricerca ampia e documentata, che non perde mai di vista, malgrado la mole delle fonti e della bibliografia utilizzata, l’obiettivo: dar conto di ciò che accade nelle situazioni concrete, reali della vita delle persone, fatte anche di simboli, di immagini e di riti.
Si tratti della realtà dei call center (Cartoline da Bollywood), delle lotte anticoloniali dei contadini (Narrazioni oltre il tempo della storia: i subalterni tra poesia e lotta, degli storici che hanno accolto Gramsci in India (Namaste Gramsci!), di Shiva/Shakti e della differenza di genere (Immagini differenti), l’analisi riesce a fondere i diversi approcci e i diversi strumenti metodologici utilizzati: l’uso di fonti spesso trascurate (i testi della religione vedica ma anche i film indiani prodotti e distribuiti ormai in tutto il mondo); i dati e le letture dell’attuale situazione politica ed economica; la storia, in particolare dell’India coloniale, ricostruita da storici come Ranajit Guha e Edward Said; i nodi teorici e le difficoltà della ricerca e del racconto storico.
Centrale resta, in ogni aspetto della trattazione, il ricorso alle fonti delle antiche narrazioni: la realtà contemporanea dell’India non può essere compresa se non si conosce quel patrimonio di storie - nel libro ampiamente ri-raccontate e utilizzate - di cui è fatta la sua cultura millenaria che è contenuta in particolare nelle Upanisad e nel Mahabharata.
Uno degli aspetti più interessanti della ricerca di Luca Cangemi è proprio il modo in cui utilizza, intrecciandole con altre fonti e altri studi, i miti e delle antiche narrazioni, nella consapevolezza che essi costituiscono l’immaginario collettivo, il senso comune, la cultura popolare, la risorsa di creatività a cui gli indiani attingono.
Divise in Sruti (rivelazione, significato letterale: ciò che è stato udito), conoscenza sacra trasmessa oralmente nei secoli,di cui fanno parte le Upanisad), e Smrti (tradizione, significato letterale: ciò che si ricorda, di cui fa parte il poema epico Mahabharata), a questi racconti il libro fa ricorso per comprendere e far conoscere meglio le realtà che descrive. Ma anche per trovare e suggerire un possibile percorso di contaminazione.
"Il tempo che viviamo, lo spazio che attraversiamo, sono profondamente segnati da linee di frattura da cui emerge un bisogno di nuove visioni e nuove ispirazioni, in grado di ricostruire legami e solidarietà, di riattivare lo spazio sociale e culturale della creazione del senso”.

Pina La Villa - Girodivite