sabato 27 novembre 2010

no alla controriforma gelmini: cresce la mobilitazione
















In tutta Italia, sono giornate di straordinaria mobilitazione contro il ddl Gelmini che distrugge l'università pubblica, occupazioni in moltissimi atenei ed in luoghi simbolici della cultura, a Catania occupata la facoltà di Fisica e martedì 30 grande manifestazione... la protesta continua!

Intervista ad Alberto Burgio, docente all’università di Bologna, direzione nazionale del Prc


Studenti in piazza, atenei occupati, cariche della polizia. L’università, in questi giorni, è il fronte più caldo dell’opposizione sociale al governo Berlusconi. «Però si è riscaldato con imperdonabile ritardo», spiega Alberto Burgio, autore già un paio d’anni fa, di Manifesto per l’università pubblica, scritto assieme a Gaetano Azzariti, Alberto Lucarelli e Alfio Mastropaolo (DeriveApprodi, pp.96, euro 10). «Temo purtroppo che la riforma diventerà legge, questione di ore. E’ uno scandalo che un governo in coma si permetta di varare una cosiddetta riforma su un aspetto tanto nevralgico».


Tutte le pseudo-riforme degli ultimi anni si sono richiamate a criteri di ragioneria. Non ci sono i soldi, quindi bisogna tagliare. Un argomento in apparenza incontrovertibile, no?

Se veramente il problema fosse la mancanza di soldi nell’immediato, basterebbe fare scelte politiche diverse da quelle operate sinora. Perché, ne dico una, non riduciamo le spese militari? Oppure, perché non si fa nulla per ridurre l’enorme, scandalosa evasione fiscale, ben oltre i cento miliardi di euro l’anno, sottratti alla finanza pubblica?

Anche quando le riforme rivendicano un carattere tecnico, producono effetti politici. Ma qui non sarà che i tagli sono un pretesto per smantellare l’università pubblica di massa?

La questione economica è la foglia di fico. C’è un progetto chiaro. La riforma opera con i tagli, ma il suo cuore è politico. Nel senso che si vuole mettere la parola fine al sogno di una università di massa e di uno strumento democratico di diffusione del sapere oltre che di accesso alle professioni e ai ruoli di direzione sociale e politica del paese, come da Costituzione. Il vero progetto è questo: ridurre al minimo la funzione di mobilità dell’università e restituire quest’ultima alla sua funzione tradizionale, quella di riproduzione delle élite e di una classe dirigente oligarchica. Per il resto, per la stragrande maggioranza delle persone, si riserva un’alfabetizzazione al livello delle esigenze di un mercato del lavoro che all’Italia, tra l’altro, affida un ruolo di secondo piano. Non sono il sapere, l’innovazione, la conoscenza a essere considerati la leva del futuro, bensì il lavoro dequalificato, precario e sottopagato.

Non c’è anche l’obiettivo di avvantaggiare l’offerta privata di conoscenza, riscrivendo i rapporti giuridici tra università e impresa? Si parla molto delle fondazioni e dell’ingresso dei privati...

Affidare ai privati la funzione di dirigere la spesa per la ricerca e per le istituzioni formative significa pensare a un’università per pochi. Ci si riempie la bocca della retorica dell’eccellenza e si trascura il compito fondamentale che dovrebbe essere la mobilità del sapere e innalzamento del sapere critico di massa. Attenzione, però. I privati non sganciano un quattrino. Né per la ricerca e l’innovazione nelle loro imprese - come dimostra il caso Fiat - e nemmeno per le loro stesse università. Pochi, infatti, sanno che le stesse università private vivono in larga misura con i soldi pubblici. Vale per la stessa Bocconi che suole essere considerata fiore all’occhiello della formazione privata. Bisogna intendersi sulla privatizzazione in atto: non è una alienazione, bensì una privatizzazione del pubblico, un regalo ai privati, di fatto. Come ci spiega l’economista staunitense James Kenneth Galbraith, la difesa dello Stato, oggi, è tornata a essere uno slogan di destra. Lo Stato è diventato una cosa privata, serve a dare soldi alle banche. L’affare delle fondazioni, tornando al nostro problema, rischia d’essere un gigantesco regalo ai privati, i quali diventerebbero proprietari dell’immenso patrimonio delle università.

Avremo un esercito di lavoratori intellettuali precari e sottopagati. Com’è possibile che avvenga questo nel momento in cui la conoscenza, il simbolico e la dimensione cognitiva svolgono oggi un ruolo fondamentale nell’economia?

In un paese che accettasse la sfida dello sviluppo il sapere e la conoscenza sarebbero strategici. Ma il capitalismo non funziona in base al criterio di compensare le funzioni sociali con il reddito in misura della loro importanza. Il capitalismo decide la misura delle retribuzione dei lavori spingendole verso il livello più basso possibile. Da una parte, ci si intende servire del sapere poiché è indispensabile alla riproduzione del capitale, dall’altra, il sapere viene pagato nella minore misura possibile. I giovani che lavorano nella ricerca sono precarizzati e messi in condizione di ricattabilità. Ci si avvale dei loro saperi al più basso prezzo di mercato. Nella specificità italiana i saperi contano ancor meno, perché l’Italia sceglie di recitare un ruolo di complemento nella divisione internazionale del lavoro, limitandosi a offrire lavoro dequalificato e a basso costo. E’ folle, non solo perché si condannano le giovani generazioni a una vita di miseria, ma anche perché non è immaginabile competere con le cosiddette economie emergenti sul costo del lavoro.

Ad aggravare la situazione c’è l’affinità del Pd con le ricette del centrodestra. Non ti pare?

Anche il Pd ha enormi responsabilità. Ho persino dei dubbi che l’opposizione parlamentare abbia fatto davvero di tutto per impedire la riforma. Invece di fare opposizione in nome della difesa dell’università pubblica e di massa, rivendica la primogenitura delle stesse categorie della destra: la competizione tra le università, le fondazioni, la governance, il riconoscimento alle imprese di una funzione di direzione. Una sostanziale condivisione dello stesso progetto politico.

(di Tonino Bucci, Liberazione 26/11/2010)