di Ivana Ioppolo
“I had always assumed that femminism meant opposition to hierarchies of any sort”, scrive Martha Arckelsberg considerandolo come elemento unificante delle diverse anime esistenti all'interno del movimento.
A ben vedere, più o meno recenti elaborazioni teoriche e movimenti sociali non contemplano tale assioma e, al contrario, lo controvertono.
Un esempio fra tutti è il recente esperimento del movimento Se non ora quando, in cui si è chiamata in adunata la schiera delle donne al di là di orientamenti politici e religiosi. Ed è così che all'interno della stessa piattaforma programmatica si sono ritrovate tra le promotrici la giornalista Concita Di Gregorio e l'avvocatessa Giulia Bongiorno, in assoluta coerenza rispetto al sentimento di antipolitica che aleggia nel nostro paese.
La spinta rivendicativa, come è facile intuire, non prevedeva il sovvertimento di una situazione di oppressione de facto ma un invito alla sobrietà e al riconoscimento della dignità della donna come moglie, madre, figlia.
In tale operazione di stampo populista si realizza, quindi, un deterioramento evidente delle istanze rivendicate compiendo un balzo indietro sia rispetto alle pratiche di emancipazione sia rispetto a quelle libertarie. Il ruolo socialmente costruito viene non solo accettato da queste donne ma è ancor più ribadito il concetto per cui sia necessario porre le condizioni per cui questo sia eseguibile. Il problema, infatti, non è che il lavoro di cura sia monopolio delle donne, o che la maternità sia tornata ad essere sinonimo di inoccupazione, ma soltanto che la società in cui viviamo è lasciva e poco decorosa.
Non intendiamo mettere in discussione la veridicità di tale fenomeno e tuttavia la mercificazione del corpo delle donne come puro oggetto sessuale a beneficio del maschio è solo uno degli aspetti di un fenomeno più complesso. In altre parole, la rivendicazione del movimento non si discosta dai dettami della morale cattolica e borghese in cui il dualismo tra i generi è tutt'altro che risolto e la rigida divisione dei ruoli funge da meccanismo di mantenimento delle disparità.
La disfunzionalità, semmai, nei nostri costumi sessuali risiede nell'esaltazione di un modello disaffettivo di relazione tra i generi.
Per ritornare alle dicotomie suddette, il maschile è connotato dalla dinamicità, mentre il femminile dalla passività.
In questo quadro, la relazione affettiva tra i generi non può fondarsi sulla gratuità e la reciprocità, ma dipende al contrario da un corollario di assiomi che determinano la dominanza di uno sull'altro.
La falsa liberazione della sessualità femminile risulta, quindi, non essere altro che l'assoggettamento del corpo al desiderio prescritto dalla cultura dominante che reifica l'essere umano in attrezzo utile per generare piacere.
Nella grammatica culturale, inoltre, tendono a sommarsi a questi elementi altri comunemente in uso come l'etnicizzazione dei reati. E così che l'omicidio di una donna operato dal compagno o dal parente viene socialmente definito come affare di famiglia e per tanto relegato al privato; mentre il reato compiuto da un cittadino straniero genera indignazione e reazioni pubbliche. In entrambi i casi, tuttavia, ci ritroviamo purtroppo davanti alla medesima situazione: una donna vittima di violenza di un maschile che perora il suo dominio.
Il problema non è, evidentemente, di facile soluzione e il contributo teorico fin qui elaborato non è più sufficiente per farci restare in piedi. Se è vero, come è vero, che pochi altri movimenti come quello femminista possono ascriversi vittorie sociali epocali come quelle avvenute negli anni '70 del secolo scorso; se ne sente davvero la mancanza.
I neologismi rappresentano la capacità della lingua di rinnovarsi e di evolvere a seconda del contesto di riferimento. Forme più o meno cacofoniche instillano nell'immaginario collettivo un oggetto o un concetto ben preciso. Tra questi recentemente in uso, ne troviamo uno che rappresenta, se considerato nella sua complessità, la sconfitta di una società: il femminicidio. Con questo termine si fa riferimento alle discriminazioni e violenze, fino al gesto estremo dell'omicidio, subite dalle donne a causa della loro appartenenza di genere.
Dati alla mano, il fenomeno appare sempre più diffuso e con conseguenze altrettanto drammatiche. Solo nell'anno appena passato, il numero delle donne uccise da partner o ex compagni ha superato la soglia delle 120 vittime. Numeri da guerriglia, insomma.
Su 10 casi, almeno 7 erano stati preceduti da denunce e segnalazioni alle forze dell'ordine, in altrettanti casi erano precedentemente state predisposte misure di restrizioni a tutela di queste donne minacciate e segnate da ripetuti episodi di violenza psicologica e fisica. Ciò a dimostrazione del fatto della assoluta inefficacia degli strumenti preventivi e protettivi per l'incolumità delle donne vittima di violenza.
Le ragioni profonde del fenomeno, tuttavia, non si combattono alla radice, così come in molti altri casi, con formule repressive poiché ci troviamo innanzi ad un fenomeno sociale che pervade ogni aspetto della vita quotidiana. Il sociologo Pierre Bourdieu, attraverso il concetto della violenza simbolica, suggerisce come le dinamiche che comportano la trasmissione di cultura utili al mantenimento di pratiche sociali legittimate de facto siano applicabili anche al dominio maschile sull'altro genere.
La divisione squisitamente sociale dei ruoli è giustificata ab origine con motivazioni che si riferiscono alla dimensione del naturale: la struttura ossea e muscolare, la funzione riproduttiva e la conformazione degli organi sessuali. Le conseguenze dirette si ripercuotono su aspetti cognitivi e comunicativi basilari: la conoscenza del mondo esteriore ed interiore viene rappresentata lungo continuum di contrapposti (esterno/interno; duro/molle; fiero/mite; alto/basso etc.) cui simbolicamente corrispondono rispettivamente il maschile e il femminile. Entrambi i generi vengono, quindi, inscatolati in caratteristiche peculiari che si trasformano socialmente in aspettative di ruolo. É in questo senso che la divisione sociale tra pubblico e privato, prerogativa in ordine al genere maschile e femminile pur con importanti avanzamenti in termini di legislazione antidiscriminazione, è tutt'altro che superata.
Nel processo di trasposizione del significato di 'sesso' - inteso come l'insieme dei caratteri biologici, anatomici e fisici che contribuiscono a costruire il maschile e il femminile – nel senso socialmente costruito di 'genere' si acuisce maggiormente la sostanziale disparità. La trasformazione concettuale del maschile è operata mediante il valore simbolico associato ad esso essenzialmente legato alla forza e alla potenza, mentre per il femminile si utilizza la funzione correlata ossia la riproduzione. In qualche modo si instaura, quindi, una gerarchia fondata sulla forza fisica trasmutata in egemonia. I ruoli sociali costruiti sui generi, infatti, ricalcano tale gerarchia plasmando gli strumenti del potere sul dominio di una parte sull'altra.
Parafrasando le tecnologie del sesso di Foucault, la femminista Teresa de Laurentis teorizza le tecnologie del genere, intendendo l'insieme delle condizioni culturali e valoriali che hanno creato il dualismo uomo/donna e l'insieme delle condizioni che rendono possibile il suo trascendimento attraverso un'ottica votata non già alla ricerca dell'elemento fondante e unico quanto educata alla cultura della diversità.
Un elemento di rottura, rispetto al passato, giunge dalla virtualità in cui è socialmente accettata la presenza di identità molteplici fino a giungere a quello che Donna Haraway descrive come cyberfemminismo.
La materialità dei corpi, tuttavia, è ancora profondamente immersa in quella che taluni definiscono come la cultura dello stupro, ossia un contesto sociale che giustifica la violenza esplicitamente o meno, e nella predominanza della dualità.
Da questa circostanza emerge il valore di quello che, forse, è l'elemento unificante della teorizzazione femminista, nelle sue articolazioni e sfumature, e che è storicamente individuabile nel superamento del patriarcato e nella lotta per la liberazione dall'oppressione.
“I had always assumed that femminism meant opposition to hierarchies of any sort”, scrive Martha Arckelsberg considerandolo come elemento unificante delle diverse anime esistenti all'interno del movimento.
A ben vedere, più o meno recenti elaborazioni teoriche e movimenti sociali non contemplano tale assioma e, al contrario, lo controvertono.
Un esempio fra tutti è il recente esperimento del movimento Se non ora quando, in cui si è chiamata in adunata la schiera delle donne al di là di orientamenti politici e religiosi. Ed è così che all'interno della stessa piattaforma programmatica si sono ritrovate tra le promotrici la giornalista Concita Di Gregorio e l'avvocatessa Giulia Bongiorno, in assoluta coerenza rispetto al sentimento di antipolitica che aleggia nel nostro paese.
La spinta rivendicativa, come è facile intuire, non prevedeva il sovvertimento di una situazione di oppressione de facto ma un invito alla sobrietà e al riconoscimento della dignità della donna come moglie, madre, figlia.
In tale operazione di stampo populista si realizza, quindi, un deterioramento evidente delle istanze rivendicate compiendo un balzo indietro sia rispetto alle pratiche di emancipazione sia rispetto a quelle libertarie. Il ruolo socialmente costruito viene non solo accettato da queste donne ma è ancor più ribadito il concetto per cui sia necessario porre le condizioni per cui questo sia eseguibile. Il problema, infatti, non è che il lavoro di cura sia monopolio delle donne, o che la maternità sia tornata ad essere sinonimo di inoccupazione, ma soltanto che la società in cui viviamo è lasciva e poco decorosa.
Non intendiamo mettere in discussione la veridicità di tale fenomeno e tuttavia la mercificazione del corpo delle donne come puro oggetto sessuale a beneficio del maschio è solo uno degli aspetti di un fenomeno più complesso. In altre parole, la rivendicazione del movimento non si discosta dai dettami della morale cattolica e borghese in cui il dualismo tra i generi è tutt'altro che risolto e la rigida divisione dei ruoli funge da meccanismo di mantenimento delle disparità.
La disfunzionalità, semmai, nei nostri costumi sessuali risiede nell'esaltazione di un modello disaffettivo di relazione tra i generi.
Per ritornare alle dicotomie suddette, il maschile è connotato dalla dinamicità, mentre il femminile dalla passività.
In questo quadro, la relazione affettiva tra i generi non può fondarsi sulla gratuità e la reciprocità, ma dipende al contrario da un corollario di assiomi che determinano la dominanza di uno sull'altro.
La falsa liberazione della sessualità femminile risulta, quindi, non essere altro che l'assoggettamento del corpo al desiderio prescritto dalla cultura dominante che reifica l'essere umano in attrezzo utile per generare piacere.
Nella grammatica culturale, inoltre, tendono a sommarsi a questi elementi altri comunemente in uso come l'etnicizzazione dei reati. E così che l'omicidio di una donna operato dal compagno o dal parente viene socialmente definito come affare di famiglia e per tanto relegato al privato; mentre il reato compiuto da un cittadino straniero genera indignazione e reazioni pubbliche. In entrambi i casi, tuttavia, ci ritroviamo purtroppo davanti alla medesima situazione: una donna vittima di violenza di un maschile che perora il suo dominio.
Il problema non è, evidentemente, di facile soluzione e il contributo teorico fin qui elaborato non è più sufficiente per farci restare in piedi. Se è vero, come è vero, che pochi altri movimenti come quello femminista possono ascriversi vittorie sociali epocali come quelle avvenute negli anni '70 del secolo scorso; se ne sente davvero la mancanza.
(da Rebus Magazine)