mercoledì 7 marzo 2012

precarietà del lavoro delle donne: i dati dell'inchiesta sulla grande distribuzione a Catania

Nella società della globalizzazione capitalista, che dedica sempre più tempo all’ossessione di un consumo onnivoro e compulsivo, la grande distribuzione e le catene multinazionali o in franchising costituiscono, in particolare in una realtà drammaticamente segnata dalla disoccupazione come quella catanese, uno dei settori in cui si riversano più attese occupazionali, soprattutto delle donne. In un perenne stato di incertezza, si intrecciano la figura “tradizionale” della commessa tanto cara al patriarcato e le nuove forme globali della precarietà.
Di fronte ad un’ulteriore precarizzazione delle vite, diventa sempre più necessario cercare di comprendere le modificazioni della subordinazione femminile nel mondo del lavoro e di incontrare le tante in/subordinazioni che spesso restano isolate; con questi obiettivi il circolo città futura ha realizzato un’inchiesta sulla precarietà delle donne nella grande distribuzione, strutturata attraverso autonarrazioni dell’esperienza, questionari ed incontri informali.
Le condizioni del lavoro precario precludono la possibilità di organizzare i tempi personali e le scelte affettive, evidenziando come, a Catania come a livello globale, la contraddizione tra capitale e lavoro assuma forme nuove e molteplici; poiché le donne sono le più colpite da questi processi, è fondamentale “partire da sé”, dall’esperienza concreta di ciascuna, per analizzare il capitalismo in tempo di crisi e costruire un’alternativa.

E.F. indossa una collana con il proprio nome: “sono i nuovi cartellini identificativi del personale, una vera e propria catena che ti lega al marchio per cui lavori… e dire che ci sono clienti che vengono a comprare questo tipo di accessori, ma io non vedo l’ora di toglierla, appena esco dal negozio”, gioielleria in franchising presso un centro commerciale. E.F. lavora nel punto vendita da quando ha aperto, e nonostante tutto si ritiene fortunata rispetto ad un 25% di donne intervistate, che dichiarano di alternare spesso periodi di lavoro e non lavoro, e ad un 28% che ha subito interruzioni nel proprio percorso lavorativo per più di un anno.

E.F. ha trovato l’impiego tramite un’agenzia di lavoro interinale, cui era stato affidato il reclutamento del personale per molti punti vendita del centro commerciale, ma soltanto il 10% delle intervistate ha usufruito di questo canale di accesso. Per la maggior parte dei casi, oltre all’invio del proprio curriculum (7%) e agli annunci (5%) il “passaparola” è il mezzo principale per accedere ad un impiego da commessa.















È il caso di A.B., che lavora nel punto vendita di una nota griffe internazionale, presso un centro commerciale: “il periodo più stressante è quello delle feste di Natale, non ci sono più turni né orari prestabiliti. Il responsabile del punto vendita mi aveva avvisato: dimenticati pomeriggi liberi e fine settimana. E infatti è stato così”. A.B. dovrebbe lavorare in part time, con turni variabili tra mattina e pomeriggio, come il 38% delle intervistate. In realtà, copre le stesse ore di chi ha un contratto a tempo pieno.
La domenica, che da giorno di riposo è diventato giorno da dedicare al consumo, è il momento più critico per le lavoratrici: l’88% svolge turni lavorativi domenicali.
Anche per questo motivo, alla domanda “se potesse scegliere, con quale orario desidererebbe lavorare?”, soltanto il 6% delle intervistate non desidera modificare il proprio orario attuale, mentre il 76% vorrebbe lavorare a tempo pieno ma con orari differenti dagli attuali: ben il 66% non vorrebbe lavorare di domenica, e di queste un 44% preferirebbe turni spezzati per rientrare a casa nella pausa pranzo; infine un 24% preferirebbe un part time, nella maggior parte dei casi solo la mattina.

TABELLA DI CONFRONTO TRA ORARIO DI LAVORO CONTRATTUALE, ORARIO REALE ED ORARIO AUSPICATO DALLE LAVORATRICI















Ma avanzare richieste sull’orario diventa molto difficile quando il contratto di lavoro non è stabile, condizione che riguarda la maggior parte delle donne intervistate: soltanto il 20% ha un contratto a tempo indeterminato, e tra le altre spiccano anche un 15% di stage e addestramento, insomma di prestazioni lavorative non retribuite.
C.D. lavora presso una grande catena di abbigliamento e articoli sportivi, presso un centro commerciale, con un contratto trimestrale: “so già che il mio contratto non sarà rinnovato, come è accaduto ad altre colleghe, la direzione preferisce assumere sempre nuove commesse per tre mesi, con una retribuzione minima”; inoltre, nonostante sia stata assunta come addetta alla vendita, C.D. è spesso costretta a svolgere altre mansioni, soprattutto in magazzino, con un carico di lavoro molto pesante.
















Come molte altre intervistate, C.D. percepisce costantemente nell’ambiente lavorativo una tensione dovuta sia all’instabilità del rapporto di lavoro, sia alle mansioni che variano improvvisamente, provocandole un notevole stress. Il grado di soddisfazione delle lavoratrici su questi due aspetti è assai basso: in una domanda a risposte in scala ben l’86% si dichiara per niente o poco soddisfatta del proprio lavoro rispetto allo stress e alla fatica mentale, ed addirittura il 95% sente la propria condizione non stabile.
Poca soddisfazione viene anche dalle opportunità di carriera (95% tra per niente e poco) e, come si è già notato, dagli orari (solo il 24% si dichiara abbastanza o molto soddisfatta).
Se la formazione è uno degli aspetti che suscita meno giudizi negativi (59% abbastanza soddisfatte e 18% molto soddisfatte), anche perché non le viene assegnata una funzione prioritaria e non è messa in relazione con le opportunità di carriera, va segnalato il dato positivo della collaborazione con colleghe e colleghi, di cui è molto o abbastanza soddisfatta il 92% delle lavoratrici, a fronte di un 42% nel rapporto con i superiori.
La retribuzione è uno degli aspetti più critici: il 68% delle intervistate si dichiarano poco o per niente soddisfatte, e alle normali motivazioni dovute a stipendi già molto bassi rispetto agli orari reali, si aggiungono in alcuni casi vessazioni e forme di evidente illegalità. È il caso di N.O., impiegata in una catena in franchising, che denuncia una diffusa e ignobile prassi: “riceviamo puntualmente busta paga ed assegno secondo contratto, ma siamo costrette a restituire in contanti una parte dello stipendio. Inutile dire che se non pagassimo questo pizzo perderemmo subito il lavoro”.

TABELLA SUL GRADO DI SODDISFAZIONE RELATIVO A VARI ASPETTI DEL PROPRIO LAVORO
















A tali punte di illegalità si accompagnano altre pesanti discriminazioni: il 67% delle donne intervistate affermano che, al momento dell’assunzione, sono state poste loro domande sulla famiglia e su eventuali progetti di gravidanza, al 21% è stato addirittura imposto di sottoscrivere una lettera di dimissioni in bianco o un impegno scritto a non avere figli per un certo periodo di tempo; c’è anche un 8% a cui, al rientro dopo un’assenza prolungata (per maternità o per assistenza familiare), sono state affidate mansioni inferiori. È il caso di L.M., cassiera in una grande catena di ipermercati: “ero stata in maternità, appena rientrata oltre ad occuparmi dei miei figli ho dovuto assistere un parente gravemente malato e ho chiesto almeno di venirmi incontro con i turni. Mi hanno spostato dalle casse al magazzino, e ho dovuto anche pulire frigoriferi pur di far combaciare i miei orari con le richieste dell’azienda. Ora sono nuovamente alle casse, ma è durata più di sei mesi”.
Come L.M., un 15% delle intervistate deve conciliare i propri tempi di lavoro e di vita con l’assistenza di un parente anziano o non autosufficiente.
In una settimana, a parte le ore di sonno o riposo, alle intervistate rimane ben poco tempo libero o tempo per la cura di sé (in media 16 ore settimanali); le ore di lavoro risultano 42 (una media tra orari di lavoro part time e full time che evidenzia come in entrambi i casi le ore di lavoro siano superiori a quelle previste dai contratti), tutto il rimanente tempo è dedicato al lavoro domestico (in media 28 ore) e al lavoro di cura, di figli o altri familiari (in media 30 ore).
E con le liberalizzazioni nel settore del commercio avviate dal governo Monti, la situazione è destinata a peggiorare ed il conflitto tra tempi di vita e tempi di lavoro continuerà ad acuirsi.