giovedì 28 aprile 2011

retorica nazionalista, difesa della costituzione e guerra di libia

















di Alberto Rotondo 

Molti di noi recentemente si sono trovati a manifestare in piazze insolite. Erano bandite le bandiere di partito, delle organizzazioni sindacali e delle multiformi realtà associative che compongono il campo della cosiddetta  sinistra diffusa,  la piazza era invasa dai tricolore, manco fossimo a un’adunata di Forza Nuova.
Non si ascoltavano i consueti canti di lotta e non vi era traccia dell’energia dei nostri giovani e di musica rivoluzionaria sparata a palla da un camioncino: ci si sentiva orgogliosamente rivoluzionari  intonando l’obsoleto inno di Mameli , reduce dalla consacrazione sanremese della performance di Benigni.
Ricordo ancora il senso di sbigottimento che condividevo con i compagni di tante lotte e di tanti cortei: ogni volta che incrociavo il loro sguardo o mi capitava di scambiare qualche battuta , si finiva per chiedersi cosa ci stessimo a fare in quella piazza.
Certo, ci avevano convocato a difesa della Costituzione e la grande alleanza costituzionale si rendeva necessaria per incalzare il despota di Arcore che sta distruggendo la legalità repubblicana, tuttavia tanta insistenza patriottica, ingigantita dalle imminenti celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità di Italia, ci sono apparsi da subito sospetti.
Come ha bene evidenziato Alberto Burgio in un interessante articolo su Liberazione, pubblicato prontamente sul blog del circolo città futura  (http://circolocittafutura.blogspot.com/2011/03/la-retorica-del-tricolore-e.html) , tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento gli stati capitalistisci hanno nazionalizzato le masse per competere fra di loro nelle guerre coloniali e per contendersi materie prime e mercati , ed è conseguenza diretta sul piano storico di quella che è stata definità l’eta degli imperialismi la disperata corsa agli armamenti che portò alle vergognose avventure coloniali italiane, alla barbarie fascista, alla tragedia delle due guerre mondiali.
A questi turpi aspetti della vicenda nazionale italiana non si è fatto cenno nelle celebrazioni unitarie che sono state accompagnate, invece, da un inedito attivismo in politica estera del Presidente della Repubblica .
Il  Presidente Napolitano non ha mancato di ricordare a ogni piè sospinto nelle sue esternazioni pubbliche il supremo interesse nazionale che ci spinge a partecipare alla coalizione dei volenterosi , responsabile dell’aggressione militare della Libia.
Di quale unità nazionale il Presidente della Repubblica  è supremo garante?
Di quella scaturita dalla lotta di liberazione, di quella “patria repubblicana” che ripudia la guerra come atto di risoluzione delle controversie internazionali  ?
Tanta retorica nazionalista serve a dissimulare la realtà.
Intorno alla vicenda libica girano vorticosamente una miriade di interessi economici e geopolitici di fondamentale importanza, e su questo penso che ci sia un sostanziale accordo nella comune opinione.
Quello che spesso si dimentica è che la pratica della guerra permanente, variamente presentata al le opinioni pubbliche nazionali con il ricorso a categorie come quella di “guerra al terrorismo” o quella particolarmente odiosa di “guerra umanitaria”, negli ultimi anni si è costituita come paradigma produttivo prevalente di un capitalismo in continua ricerca di nuove occasioni di valorizzazione.
Gli Stati Uniti d’America negli anni sciagurati dell’amministrazione Bush hanno finanziato in deficit le devastanti guerre del Golfo e la guerra in Afghanistan, attraverso il ricorso a un poderoso indebitamento pubblico , favorito dal signoraggio del  dollaro sui mercati internazionali,  generando così immensi profitti per le multinazionali degli armamenti e dei servizi per la ricostruzione postbellica.
Dopo la crisi finanziaria dei mutui subprime , le politiche di  alleggerimento monetario della Federal Reserve hanno inondato di liquidità nuova di zecca i mercati del capitale.
L’interrogativo inquietante che si impone è presto formulato: quali altre guerre e devastazioni questi capitali andranno a finanziare?
Siamo di fronte a un ‘ulteriore concretizzazione storica di quella “distruzione creatrice” che Schumpeter individuava come caratteristica principe dei sistemi capitalistici e modalità tipica con cui il capitalismo cerca di uscire dalle crisi che le sue stesse contraddizioni interne producono.
La Domenica del Corriere, giusto un secolo fa, all’inizio della campagna di Libia, domandava retoricamente agli italiani :
"Che fare? Rassegnarsi alla petulanza ottomana? Ripiegare una bandiera che da lunga teoria di secoli è simbolo di civiltà?"
Noi sappiamo che fare?
 Dobbiamo definitivamente ammainare le bandiere della civilizzazione colonialista occidentale e innalzare orgogliosamente le bandiere della pace, della solidarietà internazionalista e del lavoro.
Speriamo di ricordarcene alle prossime manifestazioni.