foto di Cristiano Pluchino |
Dopo quelle dei caroselli in piazza San Giovanni, una delle immagini più impressionanti dell’esito infelice del 15 ottobre a Roma è la statua infranta della Madonna che “siede” sullo sfondo di fuochi che ardono lontano. E’ l’emblema perfetto della “guerriglia” (il termine mediatico è abusato, improprio, in fondo nobilitante) che ha devastato non solo la città, ma soprattutto l’imponente manifestazione popolare e le sue sacrosante ragioni, di fatto conculcando il diritto di manifestare a centinaia di migliaia di persone.
Per chi è credente è un atto sacrilego. Per chi non lo è, come chi scrive, quel gesto iconoclasta, in senso letterale, è intollerabile perché inconsapevolmente ripropone la semantica profanatoria – e razzista – del nazismo e del neonazismo, oggi replicata dal leghismo: quella che prende di mira i simboli religiosi degli “altri”, che siano ebrei o musulmani, in tal caso cattolici.
E’ un gesto che racconta molte cose di quel fenomeno multiforme che i media si ostinano a chiamare black bloc e altri liquidano col termine di infiltrati. Racconta anzitutto di un certo analfabetismo, politico e non solo, tale da impedire perfino di scegliere bersagli simbolicamente adeguati a quel che si vuol esprimere col proprio gesto violento. Il 15 ottobre, infatti, sono stati assaltati non solo sportelli bancari o agenzie interinali, ma anche qualche utilitaria pagata a rate, una bottega di prodotti per pets, con gli animali dentro, un negozio che, non avendo meritoriamente aderito alla serrata, aveva dentro dei commessi, oltre tutto lavoratori precari.
Alcuni (Luciano Muhlbauer, per esempio) hanno scritto che gli incappucciati da corteo non sono apolitici, hanno bensì una visione politica che somiglia molto al no future di altre fasi della storia recente. E’ una lettura che descrive solo una parte del mélange, mutevole secondo le occasioni, fra realtà diverse: nel caso del 15 ottobre, alcune centinaia di ultrà da stadio, un buon numero di giovani o giovanissimi – fra i quali una frangia di “disagio sociale”, come si dice –, alcuni frammenti di antagonismo organizzato, perfino una piccola setta ambigua d’incappucciati che si definisce partito.
Politici o no che siano, a me sembra che uno dei tratti che caratterizza buona parte di loro, oltre alla cultura da stadio e alla consuetudine con i videogiochi, è una certa afasia. Che porta a sostituire agli slogan i petardi e i fumogeni, alla comunicazione verbale o gestuale il gusto dell’azione eclatante, non importa se mirata, comprensibile o commisurata agli obiettivi. L’unico davvero centrato, questa volta, è stato lo sbaragliamento di un corteo grandioso che, chissà, forse avrebbe potuto segnare il punto di svolta verso una vera rivolta popolare.
Mentre la battaglia in piazza San Giovanni andava spegnendosi, abbiamo provato a parlare con alcuni di loro, neppure tanto giovani. Non è stato facile, poiché manca il minimo di lessico comune per intendersi. La replica a qualche proposta di ragionamento era un balbettio che andava dal “signora, se ne torni a casa, lei che ha il lavoro e l’appartamento” al “siamo precari per colpa della vostra generazione”, mentre un anziano manifestante protestava che lui sopravvive con novecento euro al mese di pensione, dopo quarant’anni di lavoro e altrettanti, ininterrotti, di lotte.
Certo, sappiamo bene – l’abbiamo imparato dai riots inglesi e dalle rivolte nelle cités francesi – che la messa in scena della violenza è anche uno strumento per rompere il muro della segregazione, rendersi visibili nello spazio pubblico, attirare l’attenzione della politica e dei media: in definitiva, un’auto-attestazione d’identità. E non c’è da scandalizzarsi se l’uccisione del Padre – oggi, in verità, sempre più evanescente – che ha sempre caratterizzato lo stato nascente di ogni rivolta giovanile, ora si esprime in forme più grezze, e conformi al tempo presente, dominato dalla società dello spettacolo.
La “guerriglia” del 15 ottobre è, infatti, già merce-spettacolo al servizio del mercato dei network, dei media e della politica mainstream, in definitiva del potere. Che ne ha subito approfittato per ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia: Alemanno, che non aspettava altro, ha vietato i cortei a Roma nell’area del centro, così che la manifestazione della Fiom del prossimo 21 ottobre sarà confinata, sembra, nella sola piazza della Repubblica; mentre il fiero oppositore Di Pietro, per spararla più grossa, propone addirittura una nuova legge Reale. E Maroni, entusiasta, si accoda.
Se di sicuro non possiamo cavarcela con le invettive e il paternalismo, ancor più dannosa è la retorica della “rabbia giovanile”, della “ribellione indomabile”, della “pulsione sovversiva della gioventù precaria”, retorica che impazza nel web, insieme con le filippiche contro i violenti. Quel che temiamo è che, non essendo disposti a tornare a casa, come l’anziano pensionato militante, saremo costretti d’ora in poi a scendere in piazza – Alemanno, Maroni e Di Pietro permettendo – separati per criterio anagrafico: vecchi, adulti, donne e bambini con i giovani che non odiano i vecchi; e i giovani che odiano i vecchi e la Politica a coltivare la loro “pulsione sovversiva”, d’ora in poi ignudi, malgrado le bardature, di fronte alla polizia e al potere. Privi dello scudo delle moltitudini di manifestanti – che finora hanno usato, diciamolo, in modo più che strumentale – potranno dimostrare se la “rabbia giovanile” è davvero indomabile e se è capace di trasformarsi in vera rivolta.
Annamaria Rivera – da il manifesto, 18 ottobre 2010 (versione aggiornata)