mercoledì 15 giugno 2011

vite spezzate a lampedusa

oggi pomeriggio è stata uccisa una pecora, sbarcata a Lampedusa insieme ad un gruppo di migranti.
probabilmente aveva affrontato la lunga traversata per allattare un bambino, ma evidentemente anche le pecore, come gli altri migranti, sono ritenute pericolose da un sistema intriso di un bieco razzismo.
una pecora viene abbattuta per "paura" di epidemie, tante donne e uomini sono stati lasciati morire nelle acque del mediterraneo, tanti altri vengono rispediti indietro senza pietà, come "bestie da macello", o restano rinchiusi nei CARA e nei CIE, come animali in uno zoo.

basta con la violenza ed il razzismo,
ora e sempre no alla guerra che insanguina il mediterraneo,
solidarietà con i migranti, di tutte le specie




































 un commento di Annamaria Rivera

C’era anche una pecora con i diciannove tunisini, dei quali sei donne e un bambino, sbarcati a Lampedusa in un’alba di pochi giorni fa. Non si sa se il mite animale fosse stato imbarcato per nutrire il piccolo durante la traversata, come dapprima si è scritto, o solo per ricordo del paese lontano, come avrebbero dichiarato i tunisini. C’è una terza ipotesi che nessuno ha avanzato: che la pecora fosse destinata ad essere immolata nella festa di Eid al-adha, la festa del sacrificio, appunto.
Qualunque sia la verità, v’è qualcosa di evangelico in quest’immagine della piccola comunità viaggiante per le acque del Mediterraneo con un bimbo e una pecora. È una parabola vivente che mette a nudo l’assurdità delle norme che pretendono di confinare gli esseri umani nei recinti nazionali. Quando sono le ragioni primarie dell’esistenza a spingere verso qualche altrove per cercare la salvezza o un destino migliore, oppure “solo” per praticare la libertà, anche di movimento, conquistata con una rivoluzione.
Una volta giunti a Lampedusa, i dodici tunisini, le sei tunisine e il bimbo sono diventati tutti nuda vita, come la pecora: esposti all’arbitrio di poteri che hanno deciso preventivamente che essi non hanno il diritto di avere dei diritti. Conosciamo la sorte dei tunisini umani: sono arrivati dopo il 5 aprile, quindi sono clandestini passibili di espulsione, preceduta da un periodo variabile di prigionia, arbitri e vessazioni. Dopo la sosta nell’isola, in quella bolgia che chiamano centro di accoglienza, saranno deportati in qualche lager difeso da grate e filo spinato in attesa del rimpatrio. Forse tenteranno la fuga, protesteranno per i maltrattamenti, assaggeranno i manganelli e i lacrimogeni delle forze dell’ordine.
La pecora extracomunitaria, invece, è stata abbattuta subito, senza alcuna esitazione: a niente sono valse le proteste degli animalisti. Le cronache riferiscono che “il protocollo prevede in questi casi l’abbattimento dell’animale dopo le analisi di rito e la disinfestazione”. Si noti il linguaggio: non è diverso da quello che si usa per gli umani, clandestini come la pecora: “Gli extracomunitari di nazionalità tunisina…in attesa delle decisioni dell’autorità…dopo le verifiche di rito…”.
Non so se avesse un nome, la nostra pecora gentile, indotta a emigrare clandestinamente. Ora che ha raggiunto quell’altra dimensione in cui nessuno più è sacrificabile, né animali né umani, diamole un nome per onorarla: chiamiamola Karima, che in arabo vuol dire “generosa”. Il nome le si addice, che abbia davvero salvato col suo latte la vita di un bimbo, che si sia prestata a farsi ricordo vivente del paese o, suo malgrado, capro espiatorio in senso proprio (così si chiama anche un personaggio del mio romanzo, Spelix. Storia di gatti, di stranieri e di un delitto, che non è una pecora, ma è ugualmente tunisina: una parrucchiera tunisina altrettanto mite e generosa).
Karima è l’emblema della gerarchia del dominio: siamo tutti sacrificabili dal momento in cui si è deciso che gli animali sono sacrificabili; siamo tutti mercificabili e riducibili a quantità irrilevante dal momento in cui si è deciso che tali sono i non umani. Nella gerarchia del dominio lei occupava l’ultimo gradino. La piccola comunità tunisina giunta dal mare, che a sua volta ha esercitato dominio sulla pecora, ora è essa stessa esposta all’arbitrio del potere.
Karima è l’emblema non solo della generosità e della mitezza, ma anche del vivente inerme e sacrificabile: che il sacrificio si compia nella forma della messa a morte o in quella dell’espulsione, cioè dell’annientamento di un progetto di riscatto. Dovremmo far qualcosa perché a quel bambino, approdato avventurosamente sulle sponde della speranza, sia concesso, insieme ai suoi, di cercare su queste sponde un futuro migliore.