mercoledì 27 luglio 2011

territorio bene comune: una riflessione su governo della città e questione morale



















di Alberto Rotondo

Mi capita spesso di andare a Sesto San Giovanni, da un po’ di tempo infatti mia sorella è emigrata in Lombardia alla ricerca di un lavoro per mantenere la sua famiglia. Chiunque arrivi a Sesto, e in special modo chi conosce la storia del distretto produttivo più importante di Italia, del ruolo che ha giocato durante la lotta di Liberazione e dei fasti che ha vissuto nel periodo della ricostruzione postbellica, rischia di vivere un’esperienza straniante.
Azzardo un paragone ardito: è come passeggiare fra le rovine di Roma antica qui e là riaffioranti nel caos della moderna metropoli. Tali appaiono gli edifici di Via delle Acciaierie, con la classica struttura dell’edilizia operaia del tempo, una corte centrale e tanti appartamenti che vi si affacciano dai ballatoi soprastanti: non è difficile immaginare i vincoli di solidarietà che legavano i loro abitanti, solidarietà favorita dal vivere i medesimi luoghi al lavoro e nel tempo liberato dal lavoro, a prezzo di tante lotte e tanti sacrifici.
Sollecitano la nostalgia i pesanti tendaggi di velluto rosso della biblioteca comunale, il museo del lavoro operaio, la pagoda rosso fiammeggiante del municipio e le targhe che ci ricordano le prime società di mutuo soccorso operaio. Ci parlano di una civiltà che non esiste più, proprio come le rovine di Roma antica, soltanto che il tramonto della civiltà operaia si è compiuto più in fretta.
Chi volesse avere conferma delle conseguenze della globalizzazione non ha che da fare una visita da quelle parti: oggi Sesto San Giovanni è inglobata in quella “città infinita” che dalla periferia Nord di Milano si estende fino in Brianza e oltre; una città attraversata da bretelle e scorrimenti veloci, i cui punti di riferimento sono i tanti centri commerciali in cui sono stati convertiti gli insediamenti industriali in disuso e le aree dismesse su cui già si sono indirizzate le mire degli speculatori.
Ho pensato a queste immagini, leggendo della vicenda di Penati, ex sindaco di Sesto San Giovanni e presidente della provincia di Milano, sotto inchiesta per tangenti legate alla riconversione delle aree dell’ex acciaieria Falck. Credo che questa storia vada presa ad esempio di come negli ultimi anni si sia affermata, nella gestione degli enti locali, un’ideologia perversa che ha portato all’abbandono di ogni partecipazione popolare al governo del territorio urbano e ad una passiva accettazione delle trasformazioni a cui è stato sottoposto dalle dinamiche del turbocapitalismo contemporaneo.
Mentre sono stati tagliati sempre più i trasferimenti dalle istanze centrali di governo agli enti locali, si è affermata quella “privatizzazione della pubblica amministrazione” che ha modernizzato in senso regressivo principi e istituzioni consolidati del diritto pubblico, costringendo gli enti locali a negoziare con i privati gli strumenti urbanistici di governo del territorio, anziché farne oggetto di una pianificazione democratica e partecipata. È tutto un fiorire di “accordi di programma”, di “edilizia convenzionata” in cui lo scambio immorale tra interesse pubblico e interesse privato riceve un riconoscimento giuridico, mentre nell’ombra restano gli aspetti più inquietanti e criminali del patto corruttivo sottostante.
A Catania c'è un’evidente asimmetria tra l’espansione abnorme delle aree commerciali che hanno fagocitato immense aree del territorio circostante la città e la stagnazione dell’economia, un chiaro sintomo della provenienza illecita dei capitali coinvolti.
Ancora, nei giorni scorsi il consiglio comunale ha approvato il bilancio consuntivo del 2010, da cui risulterebbe un avanzo di gestione di svariati milioni di euro. Non occorre avere studiato contabilità per rendersi conto che c’è qualcosa che non quadra; non bastano i trucchi ragionieristici di una classe politica infame a nascondere la realtà di un dissesto economico che ha portato la città al disastro sociale. Va fatta luce su come è stato amministrato il Comune e sulle reali entità del dissesto ereditato dalla giunta Scapagnini e sapientemente occultato da Stancanelli.
Il territorio che abitiamo è un bene comune, bisogna sottrarlo alle logiche criminali della borghesia affaristica e mafiosa locale e restituirlo ai cittadini, a partire dai beni sequestrati alla criminalità organizzata e pronti per un loro riutilizzo sociale.