mercoledì 2 novembre 2011

società della conoscenza, capitalismo dell'ignoranza. una proposta di discussione del circolo "olga benario"






















Società della conoscenza, capitalismo dell’ignoranza.

1. La questione della conoscenza come questione globale.

La conoscenza rappresenta un decisivo terreno di scontro tra il capitalismo contemporaneo e ogni istanza di liberazione sociale e umana.
Da un lato è riproposto in forme nuove e brutali l’antico tentativo delle classi dominanti di impedire alle classi subalterne l’accesso ai saperi e, quindi, agli strumenti di analisi e contestazione dell’asserita naturalità dei privilegi.
Dall’altro la natura medesima della produzione capitalistica dei nostri tempi apre una contraddizione formidabile, tra la voracità capitalistica di conoscenze sempre più necessarie alla produzione di merci e l’altrettanto insopprimibile tendenza del capitalismo neoliberista a distruggere le condizioni che permettono alle conoscenze stesse, alla cultura di svilupparsi.
Sono molteplici le forme e i terreni in cui questa contraddizione si rivela distruttiva.
In primo luogo, le politiche neoliberiste hanno innanzitutto colpito la dimensione e l’apertura dei sistemi d’istruzione in tutto il mondo.
Il movimento cileno per la ripubblicizzazione del sistema educativo è straordinariamente significativo non solo per la sua ampiezza e per la sua radicalità ma perché ha posto il problema di sconfiggere il sistema liberista dell’istruzione nel paese in cui esso si affermato nella sua forma più pura, con istituzioni della formazione e della ricerca quasi totalmente privatizzate.
In forme e dimensioni diverse questo è accaduto in molte parti del mondo e oggi è sottoposto a critica in tutto il mondo.
In secondo luogo, un attacco alle condizioni materiali della creazione culturale si è manifestato anche fuori dai sistemi formativi. Dalla produzione teatrale a quella musicale il taglio delle risorse pubbliche crea le condizioni per un abbassamento generale della qualità culturale, per il restringimento dell’accesso a essa, per la limitazione sociale proprio di quelle attitudini critiche e creative che più sarebbero necessarie, persino dal punto di vista produttivo, in una società che deve fare i conti con processi sempre più complessi.
In terzo luogo la cultura in ogni sua forma, nel quadro neoliberista è non solo attaccata nelle sue possibilità di sviluppo e diffusione sociale ma è anche compromessa nella sua natura. I processi di mercificazione e omologazione dell’immateriale, dell’immaginario, dell’informazione sono connessi a un capitale che tende a colonizzare ogni forma sociale, a non avere recinti entro cui contenere la sua tendenza alla valorizzazione.
Infine, la vita precaria di un numero sempre crescente di uomini e di donne (e degli stessi/e lavoratori e lavoratrici della conoscenza) tende a sottrarre tempo all’autoformazione e all’approfondimento.
Il capitalismo contemporaneo, quindi, tende a evocare la conoscenza come asse della società ma a realizzare una catastrofe culturale.
Descrivere tutto ciò, porta non solo alla denuncia di una situazione insopportabile, ma anche all’individuazione di forze concrete di resistenza, che attorno alla questione della conoscenza possano dividere il fronte avversario e realizzare un blocco alternativo. Ancora torna l’esempio cileno, dove attorno al movimento per l’istruzione pubblica si è realizzato blocco sociale che include i lavoratori, ma anche settori intermedi della società e si è rotto un blocco reazionario che aveva guidato socialmente la transizione in continuità con gli anni di Pinochet e che ancora pochi mesi fa era egemone.

2. In Italia.

Gli interventi operati dalla Gelmini, sin dal 2008, sono il più radicale, anche se non il primo, tentativo di allineare l’Italia a quest’onda liberista. Naturalmente dentro una situazione italiana che ha le sue specificità, prima tra tutte le storiche contraddizioni del sistema dell’istruzione nazionale e il particolare condizionamento delle gerarchie vaticane nell’ambito educativo.
L’impatto dei provvedimenti della Gelmini è stato devastante. I numeri dei tagli sono noti, in sintesi possiamo dire che in tre anni si è determinato un intero sistema formativo e della ricerca più piccolo, più inefficace, più discriminatorio negli accessi, più gerarchico al proprio interno.
Le giovani generazioni sono state brutalmente colpite con progressive barriere sociali e condizioni di studio inaccettabili dal punto di vista materiale che da quello didattico. È stato operato un massacro del personale precario sia nella scuola sia nell’università che  provoca, tra l’altro, una forte corrente di emigrazione intellettuale. I lavoratori a tempo determinato dei settori della conoscenza sono stati colpiti in maniera inaudita sul piano dei diritti sindacali, previdenziali, retributivi.
Con particolare virulenza reazionaria sono state colpite le esperienze più avanzate e sensibili socialmente del sistema scolastico: il modello di scuola primaria, l’integrazione dei disabili, i corsi serali. L’istruzione tecnica e professionale è stata funzionalizzata ai desideri di Confindustria per la formazione di manodopera (proveniente dai settori sociali subalterni e dall’immigrazione di seconda generazione) con scarsa qualificazione, bassi redditi e zero diritti. Sul piano della ricerca il governo ha sostanzialmente deciso l’uscita dell’Italia dai paesi moderni.
Una dequalificazione complessiva, una feroce selezione di classe, un’archiviazione della cultura critica sono le caratteristiche essenziali del sistema che è stato disegnato. Un sistema che ci parla del futuro del paese.
Le responsabilità di una simile catastrofe sono complesse. Ha, infatti, trovato molti alleati la feroce determinazione del governo e della maggioranza che unisce ideologia liberista, volontà di scaricare sul settore della conoscenza una larga parte dei tagli alla spesa pubblica, il tradizionale disprezzo della cultura di molta destra italiana. La Confindustria è stata diretta ed esplicita ispiratrice di molte scelte sul settore, concludendo un’opera di pressione che va avanti da anni e che ha condizionato molto anche i governi di centrosinistra. Cisl e Uil hanno compiuto una gravissima scelta di fiancheggiamento dell’esecutivo. La stessa debolezza dell’opposizione parlamentare è frutto dell’egemonia d’idee liberiste sul sistema formativo che toccano ampiamente, in particolare, settori del PD. Infine non è possibile sottovalutare la responsabilità di molti intellettuali e di grandi giornali le cui campagne, alcune vergognose come quella contro i precari, hanno costruito un contesto favorevole all’azione del governo.
Questo quadro così difficile rende ancor più importante l’esperienza delle lotte che si sono sviluppate in questi anni. Il movimento contro i provvedimenti della Gelmini nel 2008 è stato il primo grande segnale di opposizione in una fase in cui il governo Berlusconi godeva ancora di grande consenso. Le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici della conoscenza, dei precari, degli studenti, dei ricercatori hanno costituto in questi anni un punto di riferimento importante, hanno rotto il muro del silenzio, hanno in parte condizionato gli orientamenti politici e sindacali, hanno portato, elemento essenziale, nuove forze all’impegno.
I problemi, naturalmente sono stati enormi: la frantumazione sociale e le tendenze corporative sono fenomeni che negli anni hanno largamente scavato e che mettono sempre in questione l’unità delle lotte, tanto più in una situazione difficile di resistenza. L’inizio di quest’anno scolastico ha visto in particolare una difficoltà nella ripresa delle mobilitazioni, in particolare sul terreno del precariato su cui scontiamo i devastanti effetti delle nuove norme sulle graduatorie che hanno comportato l’emigrazione di migliaia di lavoratori, spesso tra i più attivi.
Più in generale ci appare indispensabile aprire una riflessione generale in cui il movimento di scuola, università, ricerca e cultura (con riferimento ad esperienze straordinarie come quella del teatro Valle) si ricollochi nella nuova fase politica e sociale che sta vivendo il paese, ridefinisca piattaforme, relazioni, forme di organizzazione.
Le questioni che ci sembrano centrali per questa riflessione sono:
- una più stretta azione comune dei diversi settori della conoscenza e delle differenti figure sociali che vi vivono e lavorano.
- una più compiuta e quotidiana relazione con le altre lotte che si sviluppano di fronte all’inasprirsi della crisi e delle politiche di governo e BCE. Questo può essere fatto a partire da una pratica di condivisione non solo di manifestazioni ma anche di riflessioni e soprattutto di luoghi.
- un profilo del movimento che superi un’attitudine difensiva dell’esistente, che pure in parte saranno ancora necessari di fronte alle nuove scelte del governo, privilegiando la costruzione di una piattaforma che ponga l’obiettivo di invertire le tendenze delle politiche del mondo della conoscenza e della cultura. Questo è particolarmente importante di fronte a possibili cambiamenti del quadro politico.
- una discussione seria e non sloganistica intorno al concetto di “conoscenza bene comune” o in altri termini sulle forme in cui il discorso sulla conoscenza diventi centrale in un progetto generale di trasformazione della società, possa essere il cemento di alleanze sociali e politiche.

3. Nel Sud, in Sicilia, a Catania.

Le controriforme della Gelmini e la tragica prospettiva del federalismo hanno reso gigantesca una questione meridionale nel settore della conoscenza che è comunque uno dei nodi storicamente irrisolti.
Com’è noto una quota preponderante dei tagli ha colpito le grandi regioni meridionali e, come abbiamo già scritto, questo provoca una più forte emorragia di risorse intellettuali dal Sud del paese, contribuendo al suo impoverimento.
Le tante vicende d’insegnanti costretti a emigrare al Nord o di ragazzi che, appena diplomati, vanno a cercare opportunità formative altrove, ci dicono non solo di una drammatica condizione umana e sociale ma anche della deprivazione di un territorio, della negazione in radice delle sue possibilità di sviluppo.
E’ chiaro che per cambiare questa situazione è necessario vincere la battaglia più generale per rovesciare radicalmente l’impostazione delle politiche in direzione di un sistema nazionale della scuola, dell’università, della ricerca equilibrato e che faccia un investimento serio sulle regioni meridionali. Questo investimento dovrebbe essere parte di un intervento per il mezzogiorno profondamente rinnovato, che punti proprio su formazione, ricerca e valorizzazione dei beni culturali come assi di sviluppo.
Questo dovrebbe valere non solo per la valorizzazione delle risorse intellettuali meridionali ma in un’ottica mediterranea.
Le rivolte della sponda sud hanno mostrato la straordinaria vitalità di nuove generazioni che non devono essere lasciate sole. La cooperazione sud-sud, in particolare a livello universitario e di ricerca, è un elemento sul quale le regioni meridionali e in particolare la Sicilia, dovrebbero lavorare come elemento di crescita e di affermazione di un ruolo diverso nel Mediterraneo, che è decisivo anche per lo sviluppo economico.
Su questo obiettivo è possibile e necessario attivarsi da subito, anche dal basso, premendo sulle singole istituzioni universitarie, oltre che su regioni ed enti locali e attivando relazioni e scambi con il mondo universitario dei paesi dell’Africa settentrionale.
Una verifica, in rapporto con le organizzazioni sindacali, in particolare la FIOM, e con le RSU va fatta rispetto allo stadio dei rapporti tra ricerca e mondo produttivo nel Mezzogiorno, per denunciare scelte strumentali e di corto respiro e aprire vertenze. Il caso ST, per la dimensione dell’insediamento produttivo e per i fitti rapporti sviluppati con il mondo accademico negli anni, acquista il valore di un caso paradigmatico dei limiti dei rapporti tra ricerca e produzione nel Mezzogiorno d’Italia.
Sul piano del sistema scolastico al livello regionale e locale la lotta contro il disegno della Gelmini va condotta assumendo con forza la questione delle strutture.
Una questione che incontra i problemi della controriforma e dei tagli a due livelli: da un lato le cosiddette “classi pollaio”, dall’altro le percentuali risibili d’istituti che garantiscono il tempo pieno e il tempo prolungato.
Sul primo problema ogni anno la denuncia di classi così piene da rendere impossibile la didattica e da mettere a rischio elementari norme di sicurezza si spegne nelle prime settimane di scuola. È necessario dare continuità a un’azione concreta di verifica delle condizioni effettive di lavoro e di studio.
Più in generale è necessario costruire politicamente l’ipotesi di un grande piano di adeguamento dell’edilizia scolastica, che sarebbe anche una grande occasione di lavoro. È possibile e necessario che per questo progetto operino insieme studenti, lavoratori della scuola, la Fillea, organizzazione dei lavoratori edili.
Sul secondo problema, è necessario aprire nel sud, con regioni ed enti locali, una vertenza per un adeguamento di strutture e servizi che permettano di aumentare sensibilmente la quota di tempo e tempo prolungato, via maestra per una nuova offerta formativa, in particolare nelle aree più disagiate socialmente, e per  garantire un allargamento degli organici.
È necessario dalle regioni meridionali, dove si concentra il precariato, rilanciare un forte impegno nazionale per la stabilizzazione. Il discorso va ripreso a partire dalle richieste di totale ritiro dei tagli e d’istituzione di un organo aggiuntivo d’istituto e dal rilancio del percorso, già previsto da una legge dello Stato, di rapida stabilizzazione di tutti i precari delle graduatorie ad esaurimento. Questa deve essere la precondizione per avviare una nuova fase di reclutamento, aperta alle giovani generazioni di laureati.
Su un piano più generale, dal sud è necessario costruire un salto di qualità nell’incontro tra i saperi e i movimenti di lotta. Pensiamo alle tante lotte per la difesa dell’ambiente e del territorio che trarrebbero una carica straordinaria dall’intreccio con i saperi complessi di cui sono portatori i lavoratori della conoscenza. Da questo intreccio può nascere un’unificazione e un impatto generale di lotte che, troppo spesso, sono tanto importanti quanto disperse. Da questo intreccio possono nascere, inoltre, piattaforme di proposta articolate in grado di far contare politicamente questioni decisive.
È dal Mezzogiorno che un movimento per la conoscenza come bene comune può manifestare tutta la carica di trasformazione.


Nota di lettura: nel testo usiamo la dizione lavoratori e lavoratrici della conoscenza ed in particolare per la scuola non facciamo distinzione tra figure docenti ed ATA. Pensiamo infatti che, pur riconoscendo la specificità di ogni esperienza professionale, sia necessario anche uno sforzo linguistico di unificazione del mondo del lavoro.